Ci sono molti modi di scrivere di aziende.
C’è il modo storico, narrarne il divenire, dalla nascita, attraverso avventure e disavventure, successi e sconfitte, alle metamorfosi e magari alla fine. Analizzando come la vicenda dell’azienda si intreccia con quella delle innovazioni che ha realizzate, della società in cui è cresciuta, dei mercati in cui ha operato, dell’economia che con essa si è sviluppata.
C’è il modo biografico, scrivere di chi l’ha fondata, di chi gli è succeduto, della dinastie che dopo di lui sono venute. I mitici capitani dell’industria sono uomini dal forte carattere e dalla spiccata personalità; le loro vite sono state attraversate dagli eventi drammatici della storia d’Europa nell’ultimo secolo: c’è materia per farne affreschi affascinanti, dipende solo dall’autore riuscire a farne un capolavoro alla Buddenbrook.
Ci sono anche le autobiografie. Genere pericoloso, perché in essi autocelebrazione e autoassoluzione sono non già pericoli da cui difendersi, ma ragione prima della propria (e a volte neppur propria) fatica. Le biografie però possono essere molto istruttive, soprattutto quando non parlano dell’autore, ma delle persone con cui ha avuto rapporti. Sono quindi anche di particolare utilità, per comporre la storia di un’azienda, le autobiografie scritte da personaggi non protagonisti della vita aziendale se, proprio per questo, riescono a parlare più degli altri che di se stessi. Scritte da persone che nell’azienda hanno lavorato a lungo, per le quali la vita personale finisce per identificarsi con la vita professionale, queste storie sezionano la vita dell’impresa secondo piani non convenzionali, riportano fatti e dati che non hanno trovato spazio in storie più tradizionali, e che, senza queste testimonianze, andrebbero perduti.
Anche questo è un libro sulla Fiat. Ma lo è in un modo diverso da quelli citati. È il solo libro che conosca, in cui un unico narratore compone la storia di un’azienda attraverso le biografie di alcuni uomini che vi hanno avuto un ruolo importante. Uomini scelti non dall’autore in base a propri personali criteri, di simpatia o di merito, ma da altri, in modo per così dire “ufficiale”: quelli che sono stati nominati Cavalieri del Lavoro.
Questa scelta insolita conduce a risultati singolari. Perché questa scelta, fatta dalle autorità pubbliche, dunque esterne all’azienda, solo apparentemente è “oggettivamente” meritocratica: in realtà quali fossero, negli anni, i rapporti tra l’azienda e il potere politico, quali le caratteristiche e le storie degli uomini che i poteri politici succedutisi nel tempo ritenessero meritevoli di essere additate al pubblico riconoscimento. Quello che ne risulta è un quadro composto da sfaccettature doppiamente diverse, quelle dei protagonisti, e quelle di coloro che li scelsero; una sorta di ritratto “cubista” che trova la sua untà nell’essere questo il ritratto della Fiat, dell’unica grande vicenda industriale del nostro Paese.
I cavalieri “della Fiat” in senso lato sono sedici, ma sei di loro hanno ottenuto il cavalierato “dentro sistemi interni o laterali alla galassia”: solo dieci sono quelli che ebbero a che fare con la Fiat in quanto fabbrica. Il fondatore Giovanni e il nipote Gianni fanno storia da sé, su di loro esiste una copiosissima produzione in vari “generi”, dallo storiografico all’aneddotica, su di loro in questo stesso libro si trovano due corposi capitoli. Ne restano otto: Valletta, Genèro, Bono, Beccaria, Romiti, Ghidella, Cantarella, Marchionne. E sono proprio le storie di questi otto “cavalieri”, il quadro che risulta dall’averle messe una dopo l’altra, i nessi che si stabiliscono tra loro, aldilà delle differenze individuali e dell’arco di tempo in cui si svolgono, a costituire a mio avviso, il lato più interessante del libro.
Che cosa rappresentano questi otto uomini, tutti vissuti sotto l’ombra di una famiglia ingombrante, resa ancora più ingombrante dalla mitizzazione, scelti da un riconoscimento “esterno”? Sono, retoricamente, l’emblema dei tanti che hanno passato – dedicato, per restare nel luogo comune – la loro vita in azienda, e che l’hanno fatta quella che è stata? Sono, romanticamente, la conferma della fascinazione che la Fiat ha esercitato per un secolo sugli italiani? Sono, realisticamente, quelli il cui lavoro in Fiat ha consentito di scrivere una pagina di rilievo nella storia del nostro capitalismo?
Sono alcune delle ambivalenze in cui ci si imbatte sempre quando si parla di Fiat. La Fiat è il luogo dove si è formato il sindacalismo italiano, ed è quella dell’operaio che sul necrologio vuole sia scritto “anziano Fiat”, come la sua personale croce di cavaliere. La Fiat è quella che è stata odiata per la pesantezza del lavoro e per la severità della disciplina, ed è quella per cui decine di migliaia di torinesi vanno a rendere omaggio al feretro di Giovanni Agnelli. La Fiat ha esercitato una fascinazione sugli italiani quale nessun’altra nostra azienda: è stato perché l’auto è il prodotto che ha significato libertà per buona parte del secolo scorso? Perché il boom della Fiat, dopo le due guerre mondiali, ha coinciso con il boom dell’Italia degli anni ’50 e ’60? Perché è l’unica nostra grande azienda? Perché gli Agnelli sono l’unica nostra grande famiglia di imprenditori, e anche in Europa lo sono più dei Quandt, più dei Porsche, e bisogna risalire ai Krupp per trovarne una simila? È per la dura spregiudicatezza del nonno o per il fascino coltivato del nipote?
Tranne Valletta e Genèro, tutti gli altri, oltre naturalmente l’Avvocato, li ho conosciuti nel loro lavoro. E questo libro mi ripropone una domanda che mi sono tante volte posto avendo a che fare con loro singolarmente, e che a maggior ragione ritorna essendo indotto dal libro a riflettere su di loro collettivamente: che cosa è stata la Fiat per loro? Che ruolo ha giocato la fascinazione della Fiat nella loro vita, nel loro lavoro? A un certo livello di responsabilità e di autonomia manageriale il lavoro è soprattutto realizzazione di sé; in una grande azienda, c’è in più la sensazione esaltante di essere al volante di una macchina potente, di avere le mani su leve possenti, di potere fare cose importanti, che restano; di essere responsabile, oltre al resto, anche di non perdere questa opportunità. Quanto, per questi otto, ha giocato il fatto che lavorassero non in una generica grande azienda in qualche parte del mondo, ma proprio in Fiat, nell’Italia che gli ha dato la croce di cavaliere?
Di alcuni di loro non esistono biografie patinate. Penso ad Alessandro genèro, a quarantenni direttore di produzione degli stabilimenti del Lingotto, mandato in giro per il mondo a guardare, imparare e copiare il meglio dei concorrenti, diventando così il massimo esperto del lavoro in linea, della catena di montaggio. La croce di cavaliere fu probabilmente dovuta alla patina di populismo operaista che il fascismo cercava di darsi in quegli anni; magari all’occhio perso a causa di uno schizzo di calce, mentre si imbiancava casa sua. Genèro fu colui che, oltre alla saldatura elettrica delle lamiere, introdusse in Italia la catena di montaggio, lo strumento emblematico del fordismo, il simbolo della condizione operaia. Quanti altri Genèro ci sono nella storia della nostra industria? Penso a un’altra azienda in cui ho lavorato a lungo, la Olivetti e il mitico Cappellaro, il creatore della Divisumma, la rivoluzionaria macchina calcolatrice scrivente. L’Olivetti produceva a un primo costo variabile inferiore a 50.000 Lire e che vendeva quasi al prezzo di una vettura, la 500. Grazie a quei margini, l’Olivetti poté far costruire uffici e officine da architetti famosi, creò un partito politico, fece di Ivrea l’Atene d’Italia: ma Cappellaro non fu fatto cavaliere del lavoro. E neppure chi dopo la guerra sostituì la catena con le più umane isole di montaggio.
Per restare in Fiat, penso a Riccardo Ruggeri, con cui ho lavorato intensamente. Una storia la sua, occhio a parte, simile a quella di Genèro: all’età di … anni, gli affidarono il gruppo nato dall’unione tra la Fiat Trattori e Ford New Holland, un gigante da 32.000 persone in 140 Paresi che perdeva a bocca di barile, e che Ruggeri portò in 1000 giorni all’utile e nei successivi 500 giorni alla quotazione a Wall Street, con un prezzo pari a 36 volte il patrimonio netto iniziale.
Verso quale traguardo cavalcano i cavalieri, per il proprio o per quello dell’azienda? A certi livelli, il rapporto di lavoro, ha un’ambivalenza sua propria, perché è un rapporto che va in due direzioni opposte. Senza Genèro, prima o poi alla Fiat la catena di montaggio qualcuno l’avrebbe introdotta; ma solo la Fiat poteva consentire a Genèro di restare nella storia industriale di questo Paese come quello che vi ha introdotto i sistemi di produzione di massa. Senza Riccardo Ruggeri, un altro che riuscisse a risanare due aziende malandate la Fiat prima o poi avrebbe finito per trovarlo, e non ci sarebbe stato nessun altro risultato, migliore o peggiore, con cui paragonarlo; ma solo la Fiat poteva consentire a Ruggeri di inventare un nuovo metodo di gestione per aziende di quella complessità, di dimostrare che nelle ristrutturazioni drammatiche il tempo-obiettivo si deve calcolare in giorni, e di scrivere così una success story internazionale. Penso a Sergio Marchionne, uno che non è “nato” in Fiat, che ha al suo passato una vita professionale in aziende finanziarie, uno che di Genèro è l’antitesi quasi perfetta: quando un giorno a Roma, alla presentazione di qualche nuovo modello, come un innamorato mi invitava ad ammirare l’eleganza di una Musa bicolore, non esprimeva la soddisfazione che solo il lavorare nella Fiat gli consentiva di provare?
Si tratta di esperienze che ho avuto modo di fare personalmente, anche in Fiat. Dopo che mio fratello era uscito dalla Fiat, Umberto Agnelli mi diede la direzione del Settore Componenti,un insieme di aziende che andava dagli equipaggiamenti elettrici della Marelli alle vernici della IVI, dai carburatori Weber ai lubrificanti, dalla plastica alle pressofusioni: un totale di circa 35.000 persone. Venivo da un’azienda di qualche migliaio di persone, e mi si dava l’opportunità di creare un gruppo industriale a partire da aziende rinomate ma scoordinate tra loro, importanti ma ciascuna con i suoi bei problemi. Ma il problema principale era d’identità: questo insieme di fabbriche, di prodotti, di tecnologie, che avevo per le mani, si doveva farlo diventare una delle più grandi aziende europee di componentistica, oppure doveva concentrarsi a essere solo un fornitore di Fiat Auto, più docile e più a buon mercato degli altri? Io ovviamente ritenevo che sarebbe stata una distruzione di valore imperdonabile ridurre delle aziende a semplici fabbriche: Nicola Tuffarelli, capo della fiat Auto, la pensava all’opposto.
Fu allora che conobbi Bruno Beccaria. All’epoca in Fiat sotto gli amministratori delegati Umberto Agnelli e cesare Romiti, c’erano due direttori generali: Tuffarelli a Fiat Auto e Bruno Beccaria, all’Iveco. Il primo cresciuto nelle serre sofisticate di Ivrea; il secondo cresciuto nelle officine OM di Brescia. Forse anche per questo nacque, tra me e lui, un rapporto sempre sabaudianamente distaccato, ma autentico. Lui’ che aveva avuto la geniale anticipazione di creare un grande gruppo europeo dei grandi Diesel, l’Iveco, a partire da quattro aziende scollegate tra loro, d’istinto capiva il valore che si poteva creare formando un gruppo componenti, e che delitto sarebbe stato ridurle a semplici fabbriche distaccate di Fiat Auto. Io volevo che il mio settore si diversificasse nei componenti per diesel automobilistici, in particolare apparati di iniezione e turbo compressori: Beccaria fu l’unico che mi appoggiò, consentendomi di usare il peso dell’Iveco nella ricerca di partner tecnologici per queste iniziative. Di fronte ai bizantismi di Corso Marconi, quando entravo nel suo ufficio in Lungo Stura Lazio avevo la sensazione di ritornare a parlare di cose reali. Di cui faceva parte anche la preoccupazione e la tristezza per cose che si sarebbero potute fare e non si facevano.
Lo scontro tra me e Tuffarelli avvenne in un comitato direttivo. Da una parte del tavolo c’erano l’Avvocato e il Dottore, come venivano chiamati i due fratelli Agnelli, Romiti, Tuffarelli e Beccaruia. A turno ogni responsabile di settore si sedeva dall’altra parte, a presentare i suoi conti. Tuffarelli attaccò e io risposi, vincendo il confronto diretto. Ma quello che ricorderò sempre fu il plateale divertimento dell’avvocato Agnelli, non so quanto interessato al dilemma strategico per il gruppo – e sì che 35.000 persone non sono proprio poche – ma certamente divertito dalla battaglia fra l’outsider Debenedetti e il potente capo dell’Auto.
Bruno Beccaria è il quarto dei “miei” otto cavalieri. Ed è emblematico di un cambiamento. A differenza di quelli che lo seguono nell’elenco, è ancora uno di quelli nati in Fiat, eppure è forestiero, venendo dalle bresciane officine OM. Ma anticipa le problematiche strategiche che dovranno affrontare quelli che li seguono. È il prima ad applicare sul campo una divisionalizzazione che negli altri settori dell’azienda procedeva a fatica. È l’unico ad avere una grande intuizione strategica, la “fusione” di due aziende italiane con una francese e una tedesca, per creare un’azienda europea, l’Iveco. Capisce il potenziale dei Diesel sulle auto, realizza la motorizzazione diesel della 130, ma non riesce a impedire che le linee di produzione dell’ammiraglia dell’Auto vengano smantellate. Il common rail, fu pensato e sviluppato in Iveco, e fu venduto poi dalla Fiat a Bosh: oggi è sui motori di quasi tutti i diesel automobilistici.
Non ho più rivisto Bruno Beccaria. Ho invece incontrato, quindici anni dopo, suo figlio Giampiero. Fu nell’auletta della Commissione Industria del Senato, lui sottosegretario del primo Governo Berlusconi, io senatore eletto con i Progressisti. Presidente della commissione, il sen. Umberto Carpi, di Rifondazione Comunista. Eletti in parti opposte, ci trovammo insieme a cercare di portare avanti un progetto legislativo per l’istituzione delle Autorità di regolazione nei settori dei servizi pubblici. Senza le quali, per legge, non si sarebbero potute le grandi privatizzazione, Enel, Eni e Telecom. Le battaglie, anche notturne, per riuscire a portare il progetto in aula, rimangono tra i più vivaci ricordi della mia vita parlamentare.
Che cosa ci aveva portati, me e anche Giampiero, alla politica, seppur su fronti opposti? Credo che sia qualcosa che ha a che fare con gli otto cavalieri della Fiat, con la natura del rapporto tra loro e l’azienda. Anche per noi, quello era un lavoro da svolgere, lui da sottosegretario, io da parlamentare, un lavoro come tanti altri, con regole da seguire: vincere uno scontro, far approvare o respingere un emendamento. Ma era anche l’opportunità che ci era stata data di impegnarci in una sfida nuova: trovare l’argomento per convincere, modificare un testo legislativo, parlare alla gente, scrivere. Era un’avventura intellettuale che avevamo la possibilità di correre.
La Fiat.
Dove si racconta di cavalieri, di principi, di un’altra Camelot, di sedici personaggi e di altre storie.
Di Marco Giovanni Manfredi.
Prefazione di Franco Debenedetti.
Introduzione di Sandro Fontana.
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