La fatica italiana di creare public company

marzo 8, 2003


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Capitalismo e mercato

Perché in Italia non riescono ad affermarsi le public company? Realizzando la separazione tra proprietà e controllo, consentono di superare i limiti che la disponibilità di risorse del controllante pone alla crescita dell’impresa. Capire perchè a noi manchi questo strumento di sviluppo, è quindi pertinente al tema della competitività, che è il centro dell’intervista del Presidente di Confindustria. La spiegazione va cercata nella politica – sostiene Marc Roe nel suo ultimo libro, Political Determinants of Corporate Governance (Oxford University Press, 2003) – nel modo in cui essa influenza i rapporti tra sistemi legislativi, concorrenzialità dei mercati, e struttura d’impresa.

I freni dell’Italia. La proprietà è molto più suddivisa tra gli azionisti negli USA che nell’Europa continentale (e in Giappone), paesi a cui mi riferirò col nome di democrazie sociali, a indicare il convergere di tradizione socialdemocratica ed economia sociale di mercato. Qui esiste una pressione per mantenere stabile il numero dei dipendenti, per non ridurre il capitale investito anche in periodi recessivi, per premiare la crescita anche a scapito della redditività: tutte strategie opposte a quelle volte a massimizzare il valore per gli azionisti. Questi devono evitare che i manager si alleino con i dipendenti: che concedano aumenti salariali per assicurarsene il consenso; oppure che adottino strategie meno rischiose anche se meno profittevoli, o di espansione che aumentano sia numero degli occupati sia prestigio e potere del manager. Nelle democrazie sociali gli azionisti sono obbligati ad aumentare il controllo sul management, e vanno incontro a maggiori costi di agenzia. La proprietà concentrata, riducendo la distanza tra azionisti di controllo e management – fino ad annullarla quando le due figure coincidono – riduce i costi di agenzia.
Non ci sono molte altre soluzioni: le democrazie sociali guardano con diffidenza agli strumenti classici per allineare i manager agli interessi degli azionisti (incentivi, stock option, scalate ostili più facili e poison pill meno efficaci). I piccoli azionisti accettano di investire al seguito degli azionisti di controllo, pur sapendo che essi si appropriano di una parte dell’utile maggiore di quella che loro spetterebbe: ritengono che gli azionisti di controllo li deruberanno meno dei manager.
Dunque: se sul mercato del lavoro vige una sorta di job property, se le crescite dimensionali sono reversibili con isteresi, aumentano i costi di agenzia; in assenza di strumenti automatici, gli azionisti ricorrono a strutture proprietarie che permettano di controllare il management. I dati raccolti da Marc Roe confermano in modo inequivocabile la correlazione tra separazione proprietà – controllo e caratteristiche tipiche delle democrazie sociali (orientamento politico, rigidità del mercato del lavoro, distribuzione del reddito, spesa pubblica sul totale del PIL).

La politica. Questo non significa che sia la politica a determinare direttamente gli assetti proprietari. La relazione di causalità potrebbe anche agire in senso opposto, la politica potrebbe essere la reazione a strutture di impresa diventate impopolari. Negli USA è stata la reazione populistica durante il New Deal, con il Glass-Steagall Act, ad eliminare il potere delle istituzioni finanziarie nell’azienda, provocando l’emergere della società ad azionariato diffuso. E’ stato il timore per gli spettri che si aggiravano per l’Europa a produrre la legislazione sociale di Bismark, prima, e la Mitbestimmung dopo. Analogamente ci si può chiedere: sono i monopoli a condizionare la politica, o é la politica che reagisce ai monopoli? La rendita che si forma nei monopoli/oligopoli a danno dei consumatori scatena la lotta tra aziende e, all’interno di ogni azienda, tra proprietà, dipendenti e manager. Tutti vorrebbero accaparrarsi la fetta più grossa della rendita monopolistica: e tutti chiedono aiuto alla politica. Questa può regolare il conflitto in vari modi. Può farlo nel modo virtuoso, aumentando la concorrenza, creando mercati comuni, favorendo la globalizzazione. Oppure può aumentare il potere decisionale dei dipendenti, e avremo la Mitbestimmung; può promuovere accordi corporativi, e avremo la concertazione. Può voler gestire in prima persona il monopolio: e avremo le aziende di stato. Quando si creano rendite di monopolio, gli azionisti devono aumentare i controlli per evitare che esse siano spartite a loro danno: i monopoli aumentano i costi di agenzia. I dati confermano la correlazione tra mercati monopolistici, bassa separazione proprietaria, protezione nel mercato del lavoro.
Perchè si diffondano società ad azionariato diffuso, non basta introdurre una buona legislazione sulla corporate governance. Questa è condizione necessaria: non si ha proprietà diffusa se la legge non protegge i piccoli azionisti dalla rapacità degli azionisti di controllo. Ma non é condizione sufficiente: bisogna che gli azionisti si sentano protetti anche contro la rapacità dei manager. Qui le leggi di corporate governance sono impotenti: non esistono leggi contro gli errori manageriali, non esiste sanzione per le buone occasioni mancate, anche negli USA, salvi che si provi il conflitto di interessi, i giudici si rifiutano di sindacare le decisioni di manager.

Gli interessi degli azionisti. Ritornando all’intervento del Presidente di Confindustria, e alla sua preoccupazione per la competitività del paese. Molte sono le condizioni perché si mantenga il delicato equilibrio in cui le grandi public company si formano e crescono. Ma una è essenziale: che il management persegua lealmente gli interessi degli azionisti, senza che ciò richieda elevati costi di agenzia. Nelle democrazie sociali, il sistema di valori tende a rendere questa situazione meno probabile. Il bene pubblico, necessario per lo sviluppo di un paese, è la sua coesione, sia nella società , sia all’interno di ogni impresa: lo si può perseguire in vari modi, e la scelta spetta alla politica. Due sembrano essere, in un paese democratico, i possibili esiti stabili: mercati competitivi, proprietà diffusa, mercato del lavoro poco regolamentato; oppure mercati oligopolistici, proprietà concentrata, forti protezioni per i lavoratori. Nessuno è così ingenuo da pensare che esista una formula per il successo e che basti applicarla meccanicamente: le considerazioni fin qui svolte hanno valore positivo, non normativo. I profitti persi dagli azionisti nelle democrazie sociali possono essere riguadagnati in termini di efficienza aziendale; la stabilità e il maggiore egualitarismo possono alla fine rendere più soddisfatti i cittadini.

Le contraddizioni. L’importante è evitare di volere cose tra loro in contraddizione. Sono invece in contraddizione i sindacati quando auspicano la public company, e sostengono che quello a non essere licenziati è un diritto della persona. Sono in contraddizione gli autonominatisi paladini delle public company che si scandalizzano per certi incentivi e stock option; o chi, leggendo al contrario la precedente e più famosa opera di Marc Roe, auspica strong managers e weak owners; o chi considera le OPA distruggono valore; o chi difende gli oligopoli di ENI, ENEL, Finmeccanica; in generale, chi vuole conservare – o reintrodurre alla prima dificoltà – il controllo della politica su aziende e mercati. Quanto poi a quelli che vorrebbero trasformare la RAI in una public company, mantenendo però i privilegi sindacali dei dipendenti, l’oligopolio pubblico-privato, il controllo dei partiti, la loro é, di tutte le contraddizioni, la più indecente.
La sola public company italiana sono le Generali di Trieste. Dalla battaglia in corso potrebbe sortire un assetto proprietario con maggiore concentrazione. Se ciò avverrà, l’analisi che qui abbiamo svolta troverà ulteriore conferma, in particolare nell’indicare quanto grande, nel determinare gli assetti proprietari, sia l’influenza, o l’interferenza, della politica: in senso lato.

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