La difficile strada verso un’amministrazione pubblica efficiente

ottobre 1, 1993


Pubblicato In: Varie


“Reinventing government”: il titolo del fortunato best-seller di Osborne e La Gaebler è stato lo slogan adottato in campagna elettorale da Clinton, che ha fatto della riforma amministrativa uno dei punti chiave del suo programma. Il progetto, un rapporto di 200 pagine, è stato illustrato dal vice presidente Al Gore in una conferenza stampa il 7 settembre.
Il rapporto vuole avere la concretezza del piano operativo: le 800 proposte dovrebbero portare ad un risparmio complessivo di 108 milioni di dollari in 5 anni. Alcune pagano il loro tributo al folklore antigovernativo; è sempre facile spulciare tra le assurdità che si stratificano nel tempo nelle grandi burocrazie: dai sussidi ai fabbricanti di lana mohair o ai produttori di miele, alle specifiche sulle caratteristiche di riflettanza delle cere per i pavimenti ministeriali. Altre propongono riduzione di uffici, privatizzazione di servizi e accorpamento di agenzie. Le proposte più incisive riguardano le due questioni centrali di ogni struttura organizzativa: l’equilibrio controlli-autonomia decisionale e il sistema premi-punizioni, nel concreto la possibilità di dare incentivi e di licenziare. Quanto al primo si propone di portare da uno a due anni il periodo di budget e di consentire agli uffici di allocare le risorse in modo più flessibile tra diversi capitoli di spesa, senza obbligare al rispetto del preventivo “riga per riga”. Quanto al secondo si propone di portare il rapporto tra dirigenti e impiegati da 1 contro 7 a 1 contro 15, di eliminare i rigidi criteri di gestione del personale (il relativo manuale è un vo-lume di 10.000 pagine); soprattutto di tagliare 252.000 posti di lavoro, pari al 4 per cento del totale dei dipendenti governativi: il governo degli Stati Uniti, con i suoi 4,4 milioni di persone è la più grossa organizzazione del paese; 9 delle prime venti organizzazioni quanto a mezzi amministrati sono agenzie governative. Il metodo è quello della qualità totale: questa impostazione globale dovrebbe distinguere questo ‘ progetto dai precedenti: ben undici lanciati dall’amministrazione degli Stati Uniti in questo secolo! Non è quindi solo da noi che sui pro getti di riforma della pubblica amministrazione si sono spese intelligenze illustri e competenze predare (tra gli ultimi, la commissione Giannini e il pro-otto finalizzato Cnr), sicché il tema genera normalmente reazioni di irata sfiducia e di sconfortato rigetto. Forse per prevenirli , il ministro Cassese ha contenuto in 13 essenziali paginette i suoi “Indirizzi per la Modernizzazione delle Amministrazioni Pubbliche”, che ha presentato recentemente. Poche cartelle dunque contro il ponderoso volume Clinton-Core, a evidenziare che il nostro non è più un problema di efficienza e di costi, ma che «la questione amministrativa è fondamentale per il buon funzionamento del sistema politico e per la ricostruzione del rapporto di fiducia tra cittadini e pubblici poteri». Non si tratta di cambiare il modo di funzionare, ma il modo stesso di essere della pubblica amministrazione; di trasformarla da un’organizzazione finalizzata al mantenimento di se stessa, ad una che si giustifica per i servizi che rende, da un’organizzazione che esige dalla Corona il pagamento dei propri costi, ad una che fornisce agli utenti servizi ad un prezzo noto.
La coreografia della presentazione del progetto Gore prevedeva la simbolica presenza di un carrello carico di documenti e di procedure che si propone di abolire: seppure con più sobrio stile anche Cassese individua nella delegificazione, nella riduzione dei ministeri, nella eli-minazione dei processi di decisione “ad incastro”, nella riduzione del numero di dirigenti gli obiettivi della riforma.
Che probabilità di successo hanno questi piani? In entrambi i casi il successo dipende dal consenso pubblico sui principi e dalla volontà politica di applicarli contro gli interessi particolari: e dalla possibilità di mantenere entrambi su un arco di tempo stimato in 8.10 anni dagli americani e in 3-5 anni secondo quanto scrive (ma anche secondo quanto pensa?) Sabino Cassese.
In America una cauta fiducia deriva dall’essere questa la prima volta che un presidente democratico fa propria la polemica contro il “big government”, cara ai repubblicani. Soprattutto è vivo il ricordo, e il timore, della popolarità dei temi agitati da Ross Perot durante la sua campagna elettorale: il sistema delle imprese è quello su cui si basa la forza degli Stati Uniti, l’industria è depositaria dei criteri e dei metodi di governo, questo deve solo essere liberato dalla incompetenza dei politici. Il confronto con gli Usa aiuta a misurare l’enormità degli ostacoli da superare a casa nostra. A cominciare dal requisito di continuità, che presuppone stabilità e autorità di governo che la nuova legge elettorale non garantisce ancora, e poi la necessità di procedere a modifiche istituzionali, per passare dal modello accentrato “napoleonico” ad un decentramento di potere alla periferia. Se si aggiunge che la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici provengono dalle regioni meridionali s’intende come il terna della riforma amministrativa contenga combustibile e comburente per la protesta leghista. Pur senza di-sconoscere la necessità, a volte, di azioni dirompenti, chi ancora crede nella razionalità progettuale si augura, che la riforma possa attuarsi piuttosto secondo un modello che anziché su sicurezza, protezione, uso del pubblico impiego come rimedio contro la disoccupazione, si basi su efficienza, selezione meritocratica, misura dei risultati. Sono (dovrebbero essere) i valori propri del sistema delle imprese: e questi, da noi mai largamente condivisi, sono stati ora anche in qualche misura appannati da Tangentopoli. Umberto Bossi come Ross Perot, allora? Per certi aspetti, arcades ambo: ma tra i servizi informatici dell’Eds r i mobili della Brianza…

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