La differenza tra regole e regolamento di conti

agosto 8, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Se si trattasse solo di regolamentare la comunicazione politica in campagna elettorale, sulla par condicio non si sarebbe certo acceso il dibattito che continua a divampare. Ora che il testo del disegno di legge governativo è disponibile, si constata che esso non è né meglio né peggio dei tanti che arrivano alla discussione parlamentare – e, ad essere obbiettivi, neppure di tanti che ne escono.

Si potrebbe lavorarci su con proposte emendative, con la moderazione e l’obiettività a cui invita, tra gli altri, il Ministro Bassanini. Si potrebbe chiedersi per quale ragione è democratico che un candidato esponga il proprio programma in diretta e in presenza di un conduttore e/o di un avversario, ed è antidemocratico che lo faccia registrato e da solo; perché la ripetizione di slogan è consentita se stampata su carta e non se irradiata nell’etere; come si fa a controllare i siti internet; interrogarsi sulla costituzionalità di vietare di esprimere la propria preferenza di voto.
Si potrebbe, con generoso understatement , qualificare come singolare il fatto che uno stato occidentale e laico entri nel nuovo millennio chiedendo a due sacre congregazioni – la commissione di vigilanza e l’Autorità delle comunicazioni – “ previa consultazione tra loro e ciascuna nell’ambito della propria competenza” di garantire “l’obiettività, la completezza e l’imparzialità dell’informazione”.
E siccome non mancano persone ragionevoli al governo e in parlamento, ne potrebbe anche venire fuori una discreta legge.

E’ invece molto improbabile che ciò avvenga. Questo perché la volontà politica che ha promosso questa iniziativa, le dichiarazioni prima, i commenti poi, tutto indica che ciò che una parte della maggioranza vuole non è regolamentare gli spazi, ma regolare i conti con l’avversario.
Perché, una volta introdotta la parola “bandire”, qualcuno ha pensato di provare a cogliere l’occasione per chiudere una volta per tutte la partita. Perché una parte della maggioranza ha premuto per far riemergere, insieme alla proposta di legge sulla par condicio, quella sul conflitto di interesse; col risultato che ora i due temi sono così intrecciati da far temere che sia impossibile districarli.
L’anello di congiunzione tra i due temi è la tesi secondo cui a Berlusconi gli spot non costano nulla, perché i miliardi che spende il presidente di Forza Italia tornano nelle tasche del padrone di Mediaset, mentre i DS o i Popolari se vogliono farsi pubblicità con la televisione finiscono per finanziare l’azienda del loro avversario.
A parte la non trascurabile differenza tra ricavi e utili, si tratta di un sofisma. Infatti Mediaset, a quanto risulta, è prossima al tetto di risorse pubblicitarie che la legge le consente di raccogliere ( e la RAI l’avrebbe addirittura superato): dunque i miliardi che spende Forza Italia sostituiscono i miliardi che spenderebbero Barilla Dixan o Fiat.
Basterebbe considerare lo spot politico come parte del servizio universale da vendere a prezzo scontato, e il profitto per le emittenti diventerebbe addirittura minore.

Ma i soldi sono solo il pretesto per il sofisma, questa è una battaglia di ideologie, di “valori”: ciò che questa parte della sinistra non tollera è la tv commerciale, vista come terreno controllato da uno solo dei contendenti, come un continuo ininterrotto spot trasmesso tutto l’anno in un “contesto iper-berlusconiano”.
Consumi di massa e cultura di massa, false libertà: tema frequentato dai francofortesi, timore dell’ultimo Popper. Ma tesi alquanto stonata in bocca a chi dice di parlare in nome di partiti che si vogliono popolari e progressisti.
Soprattutto rappresentazione faziosa: perché, ossessionata dalla tv privata, presenta un quadro in cui la RAI è come se non esistesse. Sembra che la RAI non sia anch’essa tv commerciale, che i 2300 miliardi l’anno di canone non siano un finanziamento ai partiti, che l’informazione politica non sia già diventata spot, che non sia sotto gli occhi di tutti i modi in cui vengono bilanciate le apparizioni televisive, al punto che, come rileva l’osservatorio di Pavia, ha più spazio Franco Marini che Silvio Berlusconi. Ci si paragona alla Danimarca o alla BBC: ma non risulta che le assunzioni le facciano da Downing Street, o che colà i direttori di rete debbano avere il placet dei segretari dei partiti.

E’ in questo contesto che si vorrebbe sistemare la questione del conflitto di interessi. Tema scabroso: è facile che porti ad alienarsi dei simpatizzanti. Tema praticabile solo con l’accordo dell’opposizione, se non si vuole fornirle un formidabile argomento su cui fare campagna elettorale, vincere le elezioni e subito abrogare la norma “liberticida”. I
l vero problema è il superamento dell’oligopolio pubblico-privato, e la sola soluzione è la vera privatizzazione –cioè la dismissione al 100% – delle reti commerciali RAI. Berlusconi non potrà mai farlo, non potrà mai smontare il centro di potere che si appoggia a Viale Mazzini: questo è il vero conflitto di interessi di cui è portatore. La sinistra perché ha il “partito RAI”, il polo perché c’è Mediaset: così la questione televisiva, questo unicum italiano, che ha segnato la nascita della seconda Repubblica, continua ad esserne la irrisolta maledizione.

Per i duri e puri non è questo il problema, basterebbe un po’ più di disciplina e usare il coltello finché lo si ha dalla parte del manico.
Così Claudio Rinaldi (La par condicio degli scontenti, La Repubblica del 6 Agosto) se la prende con quelli che, nella maggioranza come nel Governo, cercano di riportare il discorso della par condicio sul piano della regolamentazione, separandolo da quello del conflitto di interessi. Ci sono, tra loro, quelli che sentono la contraddizione tra divieti medioevali e ispirazioni progressiste. Ci sono quelli che pensano che con quel coltello si finisce per tagliarsi. E ci sono quelli che sanno che Berlusconi, secondo la pregnante espressione usata da Rinaldi, “chiagne e fotte”: vorrebbero solo evitare di esserne i complementi oggetto.

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