La difesa dell’italianità e lo sviluppo

agosto 9, 2017


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


IL DIBATTITO SULLE FONDAZIONI INDUSTRIALI. L’IDEA LANCIATA DA ANDREA GOLDSTEIN.
Le norme potrebbero rendere impossibili gli obiettivi ritenuti più vantaggiosi per l’azienda.

Un mercato degli assetti proprietari “vibrante” è indispensabile affinché i manager diano il massimo, e così le imprese. Lo ammette anche Andrea Goldstein, nello stesso articolo in cui apre un dibattito sull’eventualità di ricorrere alle Fondazioni Industriali per “affrontare alla radice le criticità del capitalismo italiano”. Però, poche righe dopo, spiega che il loro merito sarebbe “garantire la stabilità delle proprietà e del controllo”. Delle due l’una: per crescere, serve una maggiore contendibilità delle imprese o una maggiore stabilità?

Se la stabilità fosse un valore, noi saremmo ricchissimi. In pochi Paesi a economia di mercato la stabilità del controllo è stata garantita a una quota così strabordante di imprese e per un tempo così lungo come da noi: da un lato IRI, Efim, e Gepi, dall’altro il salotto buono organizzato da Mediobanca. E quando il primo crollava e l’altro mostrava le sue crepe noi ragionavamo di “imprese in cerca di padroni” (così si intitolava un libro di Fabrizio Barca), di contendibilità come valore, di separazione tra proprietà e controllo, di regole dell’OPA che la legge Draghi introduceva nel nostro ordinamento. Intanto il pubblico cercava di non mollare la presa con le Fondazioni bancarie e le municipalizzate, e il privato di garantirsi il controllo con i patti di sindacato, le scatole cinesi, le accomandite. (Le azioni con voto multiplo sarebbero venute dopo).

Tutti mezzi, questi, per limitare la contendibilità: ma almeno non lo nascondono, vanno diritti al punto, usando gli strumenti messi a disposizione del codice. Anche le Fondazioni Industriali che oggi si propongono per il “nobile” scopo di proteggere i “gioiellini italiani” dalle “scorrerie” hanno lo stesso scopo: i proprietari di quote che nel loro insieme ne fanno l’azionista di riferimento le trasferiscono, insieme ai relativi poteri di nomina degli amministratori, a una struttura formata da persone di indiscussa reputazione; rinunciano pure a una parte degli utili per destinarli a un’iniziativa benefica di rilievo. Ma la “prestigiosa” struttura è inevitabilmente autoreferenziale (come, se non per cooptazione, i vertici della fondazione sceglieranno i propri successori?), e la “virtuosa” iniziativa si rivela capitale reputazionale utile ad assicurare la stabilità.

Quando si parla di scorrerie, si concentra l’attenzione sulle mosse del “cacciatore”. Ma posto che le OPA ostili sono rare, sarebbe il caso di capire i comportamenti della “preda”, cioè del “gioiellino italiano” che sta per “cadere come birillo nel bowling del capitalismo globale” (ancora Goldstein). Questo sarà verosimilmente un’azienda padronale di media dimensione. Dato che crescere vuol dire guadagnare di più, e che questo è il bastone di maresciallo nel sacco di ogni imprenditore, più che studiare come aiutarlo a raggiungere il suo nobile scopo, cioè crescere, sembra logico chiedersi che cosa gli impedisca di farlo, cioè di mettere in atto strategie di crescita. Quelle più ovvie si sviluppano per linee interne: se l’imprenditore non le adotta, può essere per motivi oggettivi (rischio eccessivo) oppure soggettivi (problemi di successione, desiderio di diversificare il proprio patrimonio). In questo caso la soluzione potrebbe essere fare entrare un fondo di private equity: questo, con il suo portafoglio diversificato, può assumersi il rischio oggettivo, e con le sue competenze può accompagnare l’azienda alla quotazione, eliminando i rischi soggettivi. E’ successo, tanto per fare un nome, a Moncler.

La crescita per linee esterne fa leva sulle economie di scala o di scopo. Se, a differenza di Exor, Campari, Lavazza, Buzzi e tanti altri, il nostro imprenditore non si lancia in una politica di acquisizioni, probabilmente è perché la giudica troppo rischiosa: dispone di maggiori informazioni, conviene attenersi al suo giudizio. Alternativamente potrebbe ritenere che solo all’interno di un gruppo più grande la sua azienda possa crescere. Così è stato per il Nuovo Pignone, che produce una parte del catalogo di GE, forse il maggior produttore di turbine al mondo.

Gran parte delle 437 aziende italiane acquisite da stranieri tra il 2008 e il 2012 è finita nelle mani di grandi gruppi. Un fenomeno così diffuso deve avere cause specifiche: nell’alimentare potrebbero essere i mutamenti nella distribuzione; nel lusso alla concorrenza tra strategie di acquisizione di due gruppi finanziari francesi. Altri casi hanno la loro storia specifica: in ILVA l’incapacità di magistratura e amministrazione di trovare una strada che non passasse per l’esproprio dei proprietari; in BNL la faida interna alla sinistra per impedire che venisse acquistata da Unipol. TIM è un romanzo: quattro diverse forme di governance nazionali, quattro proposte di partner strategici bocciati dalla politica.

Casi diversi, con un dato comune: norme di difesa dell’italianità avrebbero solo impedito ad imprenditori di realizzare la strategia di crescita che essi ritenevano più vantaggiosa per la loro azienda, e quindi per il Paese.
Certo ci saranno anche casi in cui avranno giocato un ruolo gli “elementi soggettivi”: ma se un imprenditore, per sfiducia nella propria famiglia o nel proprio Paese, desidera vendere la sua azienda, è nei suoi diritti farlo. E non si vede in nome di quale principio né di quale interesse una norma debba impedirgli di esercitarlo.
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