La crisi del PD ha caratteristiche e gravità proprie, ma non è isolata. La crisi della socialdemocrazia è un fenomeno generale: dal 1980 tutti i partiti tradizionali hanno perso voti, ma i socialdemocratici 10 punti nei Paesi dell’OCSE, quasi 30 in quelli dell’Europa occidentale. Alcune correlazioni sono impressionanti: tra percentuale di voti che vanno ai partiti populisti e caduta della fiducia nel Parlamento europeo e nella prospettiva di un’integrazione europea; tra voto populista e insicurezza sociale, disoccupazione, perdita di posti di lavoro per via dell’esposizione alle importazioni cinesi. Lo rileva Guido Tabellini nella relazione “Populismo e crisi della social democrazia”, presentata al convegno de La Voce del 17 Settembre, e si chiede: perché chi è colpito da uno shock economico negativo diventa nazionalista e vota populista, invece di votare a sinistra e chiedere più redistribuzione? Perché diventa conservatore in campo sociale e civile e se la prende con gli immigrati? La ragione, sostiene, è che lo shock –economico, tecnologico – produce un cambiamento di identità politica, da quella classica in base al reddito a quella in base all’istruzione, dalle classiche polarità sinistra /destra, stato/mercato, a quelle nazionalisti/globalisti, protezionismo/immigrazione. A sua volta il cambiamento di identità produce un cambiamento di ideologia politica. Fin qui Tabellini. Il nostro populismo contrappone noi, il popolo, i puri, contro loro, le élite, i corrotti. E’ quindi un populismo con caratteristiche diverse da quello macroeconomico “argentino”, anche se l’aumento della spesa pubblica, punto di partenza per entrambi, occupa un posto importante nello storytelling del governo giallo-verde, rendendo quello sbocco una eventualità possibile, forse probabile.
Quali sono le implicazioni per chi si oppone ai nostri populisti? Se questa interpretazione è corretta, ci sono dei vincoli a ciò che un’opposizione in generale e il PD in particolare può fare. Se la freccia del rapporto di causalità va dallo shock, all’identità, agli stereotipi ideologici, solo un altro shock è l’evento che potrà portare al cambiamento. Ma siccome non avrebbe senso alcuno proporre, aspettare, favorire una cura che preveda prima la morte o la grave debilitazione del paziente, come obbietta Giuliano Ferrara al molto citato “manifesto” dell’Economist nel suo 175esimo compleanno, è necessario precisare meglio che cosa si intende per ciascuno dei tre termini.
Incominciando da quello centrale, l’identità. Definirla è condizione programmaticamente non sufficiente, però logicamente necessaria, come punto di riferimento che dia coerenza alle scelte che continuamente la politica propone. Questa identità non può che essere liberale, un nuovo liberalismo, per dirla con l’Economist. E non solo perché questa scelta coincide con le preferenze politiche di molti di quelli che si considerano parte dell’opposizione al governo populista. Se la socialdemocrazia è in crisi (e Corbyn l’aggrava), se il conservatorismo, quando non c’è più molto da conservare, si ridurrebbe a un heri dicebamus, se in nessun caso avrebbe senso forzare la propria passata identità per assumere quella populista, il liberalismo è anche la sola scelta. Un nuovo liberalismo che ridefinisca tassazione, welfare, educazione, immigrazione.
Stereotipi ideologici: se sono il punto terminale della catena causale shock –identità, non ha senso voler fare una distinzione, nel programma di governo populista, tra capisaldi programmatici condivisibili e fuoco d’artificio delle bizzarre proposte e delle fantasiose motivazioni. Distinguere cioè tra protezione – quindi immigrazione – e redistribuzione – quindi le variamente modulate flat tax e i variamente nominati “redditi” – da un lato; e dall’altro le nazionalizzazioni, le domeniche, i voucher, i tanti “no”. Tra l’altro, se stereotipi fossero quei due capisaldi, il PD avrebbe parecchio da rivendicare: in tema di immigrazione, dove ha ridotto drasticamente gli ingressi; e in tema di redistribuzione, dove gli 80 €, criticabili finché si vuole per molti aspetti, comunque hanno avuto, e volevano avere, effetti redistributivi; come l’ha il reddito di inserimento. Renzi, come rileva Mario Caligiuri (Da Gramsci a Casaleggio, Formiche), ha attaccato i grandi poteri immobili: il sindacato con il Jobs Act, i potentati locali con la riforma delle banche popolari, la magistratura con la responsabilità civile dei magistrati, gli insegnanti con la valutazione dell’istruzione. Come già tra sostanza e accidente, contenuto e forma, è inutile voler distinguere: le pirotecniche invenzioni quotidiane dell’alleanza giallo-verde servono a mantenere il sostegno ai capisaldi programmatici, e a soffiare sul fuoco dell’opposizione popolo-élites. Cioè proprio sul punto dove la sinistra, quella italiana in particolare, incappa nelle maggiori difficoltà.
Infatti la sinistra italiana ha sempre coltivato gli intellettuali, l’élite che per un lungo periodo le ha assicurato una certa egemonia culturale, un obbiettivo che ha il suo posto tra i suoi lari e penati. Il suo elitarismo ha prodotto la demonizzazione di “televisione cattiva maestra”, con la a-crescita felice del voluto ritardo nell’adozione del colore; è dilagato poi nel gran mare dell’antiberlusconismo; ha guidato la battaglia in difesa della Costituzione-più-bella-del- mondo; e ora ritorna nella critica alla pervasività dei social. Dal libro, al tubo catodico, allo schermo dei tablet. Ha sapore elitario anche la diversità berlingueriana, per non parlare di onestà-tà-tà. Le scelte su Europa e vincolo esterno, privatizzazioni e quadro regolatorio, rispondono all’obbiettivo politico di legittimarsi come forza di governo; ma quanto a farle comprendere dalla base di per sé, non strumentalmente, l’energia impegnata è stata poca e il successo modesto.
Ritorniamo alla catena causale shock- identità- stereotipi/ideologie. Si è detto di identità e di ideologia. Rimane lo shock, unico evento che può portare al cambiamento politico. Ma non siamo in guerra, quando ci auguravamo che gli alleati avanzassero in fretta per liberare il Paese: lo spread quindi, certo, ma solo come termometro che misura in tempo reale il pericolo insito nella proposta e l’efficacia della risposta, mai come innesco di una crisi che sarebbe devastante. Però oltre ai grandi shock macroeconomici, ci sono anche gli shock minori, costosi ma non letali: molte delle iniziative del governo hanno il potere di provocarli, bisogna costringere ciascuna di essa ad un bagno di realtà. A volte può essere la realtà stessa a indurre a cambiare rotta, come è stato con ILVA, in parte con i voucher, potrebbe essere con le domeniche. La nazionalizzazione di Alitalia, i no vax, i no games e via inventando e negando, hanno costi di varia natura per varie categorie di cittadini: bisogna misurarne le conseguenze. Lavorare sugli shock e rendere evidenti i loro effetti è il compito dell’opposizione.
Ma come? Con quale metrica? Non quella degli esperti, non solo perché questi hanno fallito, ma perché l’insieme delle conoscenze è disperso e diffuso. Prenderne le distanze non basta, quando si deve convincere chi ha fatto della contrapposizione alle élite la cornice della propria ideologia.
Con quale linguaggio? Questa è la massima difficoltà. Vano sforzo è convincere con l’intelligenza dei fatti e con la forza dei numeri, quando la teoria economica ha mostrato quanta emozione ci sia dietro la (presunta) oggettività, e quando la modalità comunicativa di cui fanno quotidiana esperienza coloro che si vuole convincere è basata su sentimenti ed emozioni. In Italia dicono ci siano 30 milioni di account Facebook e 10 di Twitter, dove è verosimile che i populisti siano sovra rappresentati. Comunicare con loro è un problema di tecnologia, di linguaggio, di contenuti.
Compito davvero arduo quello di costruire un’opposizione al populismo. Quello che è certo è che proporre solo un proprio modello identitario, comunque aggiornato, rischia di ridursi a parlare ai soliti convinti.
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