Una delle ragioni della bassa crescita, italiana ed europea, è che troppi lavoratori sono impiegati e troppi capitali investiti nei settori diventati meno dinamici dell’economia. E’ il tema di uno dei dossier preparati per il semestre europeo a presidenza italiana, per essere proposti a Enrico Letta. Spostare capitali e persone in settori trainanti richiede cambiamenti radicali: può non bastare il cambiamento del management, servono culture diverse, può essere necessario l’innesto di outsider, fino al trasferimento del controllo.
Per il cambio di controllo, lo strumento per eccellenza è l’OPA. Non è l’unico, forse neppure il più usato, ma è emblematico di un sistema di mercato ordinato. Non per nulla norme che ne regolano lo svolgimento furono introdotte nel nostro ordinamento alla vigilia del grande ciclo di privatizzazioni del primo governo Prodi: serviva anche quello per significare al mondo finanziario che il nostro Paese si impegnava ad usare gli strumenti e le regole di mercato per effettuare la trasformazione dei monopoli pubblici in un sistema concorrenziale privato.
Per questo la proposta del sen. Mucchetti di modificare la legge sull’OPA era apparsa controcorrente in generale e dannosa nello specifico: introdotta con lo scopo dichiarato di ostacolare, rendendo più costoso per Telefònica, equivaleva alla dichiarazione che in Italia quello per il controllo è un mercato truccato, dove non si esita a cambiare in corsa una norma vigente, pur di ostacolare un socio, ancorché comunitario. Rendendo il livello a cui scatta l’OPA soggetto a giudizi discrezionali, introduceva un elemento aleatorio nelle decisioni finanziarie. Rendeva più difficili trasferimenti di controllo efficienti. Introduceva pure, come non bastasse, una nuova tassa a carico dei soggetti promotori dell’OPA. Il tutto facendosi scudo con il “virtuoso” obbiettivo, scoperto vedi caso proprio adesso dopo 20 anni, di aumentare i casi in cui le minoranze azionarie partecipano alla divisione del premio di controllo. Di questo e d’altro ancora (la proposta conteneva errori tecnici che avrebbero potuto renderla inefficace), siamo stati in molti scrivere: ma tutti passano in secondo piano rispetto al danno di immagine. Che il presidente della commissione senatoriale delle Attività Produttive affronti con simili strumenti i cambiamenti strutturali di cui il Paese ha bisogno è in palese contraddizione con gli sforzi del Presidente del Consiglio e del ministro dell’Economia in campo internazionale per dare del Paese un’immagine opposta. Non fa piacere leggere (sul FT del 20 Dicembre) articoli dal titolo “Corporate Italy: Dio mio!”. Si è appreso quindi con sollievo, non disgiunto da una certa soddisfazione, che l’emendamento, è stato respinto anche nella sua seconda presentazione.
Oltretutto aveva già provveduto il mercato a rendere la situazione in Telecom più variegata, e per certi versi più interessante. Appena i soci di Telco messi a garantire l’ancoraggio italiano di Telecom hanno dichiarato la loro volontà di uscire dallo stallo che sta consumando l’azienda, si è visto che esiste una pluralità di soggetti pronti a scommettere i propri soldi che con un controllo e un management diverso Telecom può valere di più di quanto esprima l’attuale quotazione di Borsa. Per un’azienda che si accusava di non aver prospettive, di lesinare su investimenti essenziali per il Paese, di perdere rilevanza sullo scacchiere su cui si sta giocando il consolidamento della telefonia mondiale, essere al centro di molteplici interessi, dovrebbe essere qualcosa da guardare con spirito aperto. Non sembra vederla in questo modo la Consob: la vicenda del prestito convertendo è certamente da guardare con attenzione, ma a giudicare dalla fretta di accusare prima di sapere è sembrato che la nostra autorità di vigilanza guardasse a Blackrock più come a un pregiudicato sospetto che come al più grosso fondo del mondo disposto a investire nel nostro Paese.
La questione della corporate governance è da noi un cantiere aperto: ma essa va affrontata non con l’occhio al presente (o al passato prossimo) ma con sguardo lungimirante, nella consapevolezza della sua importanza per i cambiamenti strutturali da cui si son prese le mosse. Le vicende Telecom giungono come una conferma a chi pensa che un approccio moderno al tema dovrebbe porsi non tanto il problema di chi controlla le società quotate quanto quello della loro onestà quali gestori di soldi anche altrui. Dovrebbe concentrare i propri sforzi per creare un insieme di istituzioni e di regole che rendano più difficile e, al limite, non conveniente, l’appropriazione di parte del valore dell’impresa da parte dei soci di controllo: mettere dunque al centro la prevenzione e la repressione dei conflitti d’interessi nella gestione delle società.
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