Perché resiste un pregiudizio che è figlio della guerra fredda
Ci sarà anche Piero Fassino alla fiaccolata contro le minacce iraniane a Israele, promossa dal Foglio di Giuliano Ferrara. Per P.G.Battista (Corriere della Sera del 31 Ottobre ) è “ un atto coraggioso”: perché così dimostra di non dare peso alle scontate obbiezioni delle vestali per cui è anatema partecipare a iniziative che partono dalla destra, a prescindere.
Ed è un atto coerente perché si pone in continuità con altri suoi “strappi” rispetto a posizioni radicate nel passato della sinistra, e culminate nelle dichiarazioni sull’Iraq contenute nella famosa intervista a La Stampa e ripetute al congresso dei DS di un anno fa.
Ma c’è una questione, che attiene più alla logica politica che al coraggio e alla coerenza, da porre non a Fassino, ma a parte della sinistra italiana, e che non riguarda solo il passato: perché l’ostilità verso lo stato di Israele? Infatti questa ostilità appare, per molti versi, quasi contro natura. Prima di tutto da parte di quelli che rivendicano il ruolo preminente avuto dal PCI nella lotta partigiana: fu la lotta contro il comune nemico a cementare una contiguità con i partiti della sinistra, che per molti fu adesione esplicita. L’Israele delle origini, e ancora quello dell’immediato dopoguerra, doveva apparire come il luogo in cui si realizzava l’utopia comunitaria, la costruzione di un mondo nuovo in cui terreni venivano sottratti al deserto e resi fertili, in cui le menti venivano sottratte all’ignoranza e fertilizzate dai migliori centri di ricerca al mondo. Erano molti gli elementi ideali e culturali comuni a Israele e alla sinistra, e non solo a quella non comunista.
Ma, soprattutto, Israele è una democrazia. Non è bastato mezzo secolo per riconoscere che, nel conflitto tra lo stato di Israele e i paesi arabi – per decenni, tutti i paesi arabi circostanti- da una parte c’era un paese democratico, dall’altra monarchie assolute e dittature teocratiche e/o corrotte. Gli errori, anche le colpe, di Israele – Sabra e Chatyla, tanto per dare un riferimento – , che pesano nella memoria degli amici di Israele, non sono la causa dell’ostilità della sinistra: perché, se di etica si deve parlare, che cosa è il sostenere la dittatura corrotta ed ambigua di Arafat fino al suo ultimo disfacimento morale e politico? Non nasce da ragioni di giustizia, l’ostilità di tanta sinistra, ma da ragioni politiche: è figlia della guerra fredda, della divisione del mondo tra democrazie popolari e democrazie tout court. E analogamente è figlio della guerra fredda anche il filoarabismo della sinistra democristiana, aldilà degli interessi petroliferi.
Il pregiudizio non solo antisraeliano ma antiebraico è duro a morire e diffuso, come testimonia la recente dichiarazione di Guido Crosetto sui banchieri ebrei, richiamata ancora ieri sul Financial Times. Il pregiudizio antiisraeliano di una parte della sinistra appare non come dissenso dalle politiche di molti governi di Israele, ma si rivela piuttosto come un modo per camuffare sentimenti anticapitalisti. Il ripudio di Ariel Sharon (lo Sharon di prima dell’evacuazione di Gaza) sta al pregiudizio antiisraeliano come il ripudio di George W.Bush sta al pregiudizio antiamericano: preferenze politiche in cui sfogare preferenze ideologiche.
E’ nell’interesse dell’Unione tracciare un netto solco tra la critica a eventuali comportamenti politici di Israele nel futuro del negoziato con i palestinesi e il pregiudizio antisraeliano. Espressioni come quelle del leader iraniano mirano esplicitamente a spodestare la leadership moderata dell’ANP in favore di Hamas e Jihad islamica. Una delle poche cose buone fatte dal governo in questi anni è tentare un proprio ruolo al tavolo negoziato dal quale siamo fuori – la cosidetta road map – e questo si dovbrà copntinuare in futuro, perché le elezioni del 25 gennaio sono un passaggio terribile per Abu mazen, che infatti ha criticato duramentre nell’incotnro con Fini le parole iraniane. Il no al pregiudizio antisraeliano, oggi, è una scelta a favore dei moderati palestinesi.
Un filo rosso collega le proteste internazionali contro l’escalation dell’Iran teocratico, la rinnovata intesa franco-americana contro la Siria per l’assassinio di Hariri, la vittoria di Sharon alla Knesset per evacuare Gaza, le pressioni occidentali che hanno reso meno farsesche le elezioni in Egitto. E porta a riconoscere, comunque si voglia mantenere il giudizio sulla decisione di intervenire in Iraq, che si sono messi in moto movimenti politici, e che sarebbe imperdonabile non adeguare ad essi, anche solo pragmaticamente, le proprie politiche. “Sarà esportata, ma è democrazia”, come dice l’ormai famoso titolo di Repubblica. Proprio la considerazione di quanto è costato farlo dovrebbe indurre a difendere, con convinzione e tutti insieme, la democrazia là dove c’é.
novembre 2, 2005