L’azzardo e il grande raggiro

dicembre 18, 2008


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Il caso Madoff è stato causato dalla bassa valutazione dei pericoli di investimento e i Governi potrebbero cadere nello stesso errore per le misure contro la bolla

La loro dimensione incuteva rispetto, la loro pluridecennale tradizione di serietà e riservatezza ispirava fiducia, i loro uffici erano pieni di PhD in matematica e fisica: come è possibile che proprio tali operatori finanziari siano rimasti in così gran numero vittima di una truffa da libro di testo?

Nella vicenda Madoff, più ancora che il tempo per cui si è protratta e quindi la dimensione del buco che ha prodotto, a lasciare esterrefatti è l’elenco di chi si è fatto truffare, come lo furono gli immigrati dell’inizio del ‘900 venuti a cercar fortuna in America, o gli italiani sedotti dal miracolo economico versione Giuffrè. Per il tipo di istituzioni coinvolte, il caso Madoff non può essere accantonato come il solito vecchio trucco, solo fatto con maggiore destrezza. Sfida il proverbio secondo cui sarebbe impossibile ingannare molte persone molte volte. Lascia perplessi la solita richiesta di stringere i freni: leggi che vietano le truffe già ci sono, e quanto ai controlli, il truffatore e buona parte dei truffati vi erano già soggetti. Qui non serve mettere un limite massimo alla leva e uno minimo ai requisiti patrimoniali, o chiudere i paradisi fiscali. Né è possibile (e non risolverebbe nulla) mettere il regolatore di fianco al regolato in ogni suo business judgment.

Anche l’accusa di greed è una spiegazione troppo debole: perché bisogna pur spiegare come l’avidità abbia potuto avere la meglio sia sul comune buon senso, sia su dottrina e esperienza. Già in altre occasioni, i banchieri accusati di essersi fidati, o di avere esagerato nell’uso della leva, o di aver venduto ai clienti prodotti “sicuri” che si sono poi rivelati “tossici” si sono difesi indicando l’enorme pressione a dare risultati sempre migliori: senza l’impiego di simili strumenti, era impossibile far fronte a questa richiesta, e chi non li avesse impiegati aveva dietro di sé la fila di chi era pronto a prenderne il posto e a farne uso. E lo stesso dicasi della forza di vendita: chi cercava di legare parte della remunerazione al risultato di medio periodo, dovette presto rinunciarvi in favore di formule che accreditano subito i venditore dell’intero fatturato per non perderli alla concorrenza.

Basta attingere alla propria esperienza: è un dato di fatto incontrovertibile che, se greed era, era greed di tutti. Che cosa ha fatto salire a valori stratosferici le opere d’arte contemporanee, se non l’avidità allo stato puro, l’avidità fine a se stessa, per beni del tutto dematerializzati, interamente consistenti nel loro valore di scambio? Ma restiamo al caso nostro, ai servizi finanziari, in particolare a quelli offerti dalle migliaia di fondi alternativi. I contratti che li regolano sono tutti congegnati allo stesso modo: una percentuale annuale modesta, più una sostanziosa quota degli utili maturati nell’anno. Contratti cioè palesemente asimmetrici, dove, se si guadagna, si guadagna in due, se si perde, perde solo il cliente. Nell’industria della gestione patrimoniale c’è una spietata concorrenza, è impensabile che le migliaia di gestori si siano tacitamente messi d’accordo tra loro. Come è stato possibile che la concorrenza, invece di ridurre il vantaggio del gestore, abbia ridotto il prezzo che il cliente assegna al rischio?

Nessuno di noi è avido, ricordava Milton Friedman, l’avidità è solo quella degli altri. L’ingordigia di alcune migliaia di top manager dai bonus plurimilionari, o di alcune diecine di migliaia di operatori scatenati a vendere non può essere la causa che ha orientato un mercato di milioni di individui, che ha fatto smarrire la percezione del rischio e chiedere maggiore rendimento per i propri risparmi. Un orientamento non irrazionale in presenza di uno squilibrio tra entità del vantaggio potenziale e probabilità dello svantaggio eventuale: se il costo del downside appare minimo, la concorrenza si fa solo sull’upside. Se i tassi di interesse sono bassi – o addirittura negativi tenendo conto dell’inflazione – l’incentivo a indebitarsi per scommettere è elevato. Se la storia passata autorizza a pensare che, se qualcosa va storto, il Governo in qualche modo interverrà, si finisce per credere che esista un limite all’entità delle perdite possibili. Per chi in USA ha venduto mutui “azzardati”, la presunzione era giustificata addirittura da decenni di politiche adottate da Governi e Parlamento. L’azzardo morale non è irragionevole: come si vede, i Governi intervengono.

La richiesta di maggiori guadagni che i risparmiatori rivolgevano ai gestori patrimoniali diventa, con lo scoppio della bolla, richiesta di maggiore soccorso rivolta ai decisori pubblici. Quella era fondata sulla bassa valutazione del rischio dell’investimento, questa sulla bassa valutazione del rischio degli interventi. A parte gli indispensabili soccorsi a favore di quanti la crisi sospinge oltre la soglia di povertà, i Governi selezionano i loro interventi in base al ritorno in consensi, quindi privilegiano quelli mirati in favore di gruppi organizzati: coloro che fabbricano automobili e coloro che le vendono, oppure gli addetti alla catena produttiva che va dal latte al parmigiano. Quindi sono tutti interventi distorsivi; se poi inducessero la ritorsione degli altri stati a protezione delle proprie industrie, come fu con lo Smoot-Hawley tariff act del 1930, trascinerebbero il mondo in una guerra commerciale.

Il caso Madoff dimostra dove conduce una generalizzata sottovalutazione del rischio. Sarebbe una tragedia se i Governi, dopo averla indotta con le proprie politiche, ora dessero risposte dettate dalla ricerca demagogica di consenso. Perché una cosa è certa: non c’è alternativa al desiderio degli uomini di stare meglio, di potersi acquistare maggiori beni e maggiore sicurezza, e solo in questa è ragionevole riporre le nostre speranze.

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