Non siamo in guerra col mondo arabo, ma non lasciamo l’Iraq ai torturatori
E’ vero: la CNN che trasmette le immagini delle torture è la dimostrazione della forza di un sistema liberale e pluralistico che ancora funziona, come quello americano; che siano le amministrazioni stesse a rivelarle e a condannarle, testimonia quanto più forte sia il sentimento democratico rispetto alle deviazioni. E’ vero, ma la cosa non basta a tranquillizzarci.
E’ vero: il sistema politico giudiziario e mediatico americano si è messo in moto, e i responsabili ed i colpevoli, chi ha mancato in negligendo e chi si è insozzato in agendo, pagheranno. E’ vero, ma la cosa non basta a farci sentire a posto.
E’ vero, il Presidente degli Stati Uniti si è detto disgustato ed ha chiesto scusa. Ma non basta, e non basterebbe neppure se il governo americano capisse la necessità del gesto simbolico, far saltare per aria il carcere maledetto dove per decenni Saddam ha praticato sistematicamente la tortura; e se a Rumsfeld facessero capire che un ministro che porta un tale danno all’immagine del suo paese, il men che possa fare è andarsene.
Ci sono immagini che cambiano la storia: la bambina nuda che fugge dal napalm, o l’ufficiale vietnamita che tiene la pistola alla tempia del vietcong. Lo è diventata l’immagine della donna soldato che trascina un iracheno al guinzaglio come un cane, moltiplicata un milione di volte, con la rapidità e la pervasività di internet. Ci vorranno decenni prima che la “graphic evidence”, le immagini delle torture, cessino di essere causa della frustrazione e dell’umiliazione del mondo arabo di cui scriveva ieri Roula Khalaf sul Financial Times. Parafrasando Condoleeza Rice (“Americans don’t do that to other people”), noi non siamo in guerra con il mondo arabo. Lo scontro di civiltà è la trappola mortale architettata da chi vuole dividere l’Occidente e unire il mondo islamico, dalla Palestina all’Irak.
Noi non siamo in guerra col mondo arabo. Combattiamo il nichilismo e l’uso perverso delle tecnologia che il terrorismo islamico ha importato dall’Occidente, e che vuole usare per soppiantare gli arabi moderati. Le torture negano le ragioni del nostro essere a Bagdad. Per questo le giustificazioni non tranquillizzano e le iniziative riparatorie non risolvono. Le torture, che siano o non siano un incidente, sono comunque una discontinuità. E quindi non possono essere trattate come un “problema” da risolvere, ma devono essere l’inizio di un radicale cambiamento. Un cambio di prospettiva che colmi quel deficit di credibilità che è stato il vero problema dell’Occidente nel dopo guerra a Saddam. “L’America, scrive Fareed Zakaria sull’ultimo numero di Aspenia, ha un problema di immagine nei confronti del Medio Oriente” causato da una serie di fattori strutturali e non solo contingenti, il più importante dei quali è la mancanza di “una chiara visione strategica che abbia la stessa portata dell’impegno sostenuto durante gli anni della guerra fredda. [...] Il rischio è che l’antiamericanismo possa diventare l’ideologia che dà voce alle proteste e allo scontento del mondo”.
C’è una forza politica, la sola a ben vedere, che ha i titoli per chiedere questo cambiamento di prospettiva: quella parte della sinistra che ha visto, nella presenza italiana in Irak, la testimonianza dell’appartenenza a quel “soggetto collettivo” di cui parla Michele Salvati sul Corriere della Sera di domenica, vale a dire “la comunità atlantica, l’insieme degli Stati democratici che gli Stati Uniti hanno forgiato nella seconda parte del secolo scorso”. Questa forza politica ha tenuto dritta la barra contro le spinte dell’irenismo ingenuo, del legalismo onusiano, del dissenso organizzato, dell’opportunismo zapateriano, dell’antiamericanismo neppure tanto dissimulato; ha resistito insomma a tutte le componenti del variegato fronte che hanno premuto e premono per chiedere il ritiro delle nostre truppe, perfino prima ancora di vedere il risultati del piano Brahimi, l’intervento dell’ONU per tanto tempo invocato. Il compito che oggi ha di fronte è ambizioso al limite dell’arroganza, richiede una capacità di giudizio e una forza di convinzione cento volte maggiore.
Ci sono anche altre immagini che hanno cambiato la storia del mondo: quella delle Torri Gemelle perforate dagli aerei terroristi, quella che blocca per sempre il volo interminabile degli uomini, vivi, che si son buttati per sfuggire alle fiamme. E’ proprio sulle conseguenze da trarre da quelle immagini che si è verificato il drammatico strappo all’ONU nella primavera del 2003. Uno strappo politico, ed anche una lacerazione delle coscienze, con conseguenze, fin nei rapporti personali, che ricordano quelle descritte da Proust per l’affaire Dreyfus. Alcuni, io tra questi, hanno indicato le responsabilità della Francia nell’aver giocato cinicamente una partita di interessi economici e di prestigio nazionale; altri, anche nella sinistra non pacifista, addossano invece all’America la colpa di una “guerra ingiusta”. Ma, nella situazione di oggi, ha ancora senso portarsi dietro la differenza di giudizio sulle responsabilità di quello strappo? Dopo le torture, dopo i fatti di Cecenia di ieri, che senso politico c’è nel ridurre la nostra visione del mondo all’alternativa ritiro o non ritiro dei nostri soldati? Che senso morale c’è nel chiedere di ritirarsi per protesta contro le torture, quando si sa che lasciare l’Irak al suo destino significa lasciare campo libero a torturatori assai peggiori?
Chiediamoci piuttosto: l’Europa, in questo anno e mezzo, ha dato un serio contributo per elaborare quella visione strategica nella lotta contro il terrore di cui parla Zakaria e di cui tutti lamentano la mancanza? Oppure ha agito secondo una logica di potenza? Non siamo ingenui: si sa bene chi è in prima fila in Europa a bloccare per il momento questa iniziativa, e qual è la partita che si sta giocando. Una partita che si svolgerà il 2 di Novembre e che ha per posta al presidenza degli Stati Uniti. C’è un azzardato ma logico calcolo nella politica di Chirac, nel non fare nulla per far migliorare le cose nel frattempo, evitare di dare una mano a Bush, e sperare di avere un altro con cui trattare l’anno prossimo. Ma sarebbe davvero paradossale se noi, che non abbiamo interessi né petroliferi né di leadership continentale, dovessimo seguire questa logica azzardata. Il terrorismo è un problema come lo era dopo l’11-9. La sconfitta del terrorismo, l’evoluzione moderata dei governi arabi restano l’obbiettivo dell’Occidente nel suo senso più ampio. Bisogna ricostruire l’unità che si è spezzata nel 2003, bisogna agire perché l’Europa intervenga compatta per dare una prospettiva strategica alla guerra in Irak.
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maggio 11, 2004