Kagan, mano tesa all’Europa

ottobre 13, 2004


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di Luca Savarino

La crisi che attraversa l’Occidente affonda le proprie radici in un dissidio filosofico in grado di scuotere le basi della civiltà liberale. «Che tipo di ordine mondiale vogliamo?”: è questo il punto di partenza dell’ultimo saggio di Robert Kagan, lo scrittore neocon autore di Il diritto di fare la guerra. Il potere americano e la crisi di legittimità (Mondadori), da pochi giorni in libreria. L’America non può ignorare la crisi di legittimità internazionale di cui soffre: a separare l’Europa dagli Stati Uniti non è soltanto una diversa valutazione sull’opportunità della guerra in Iraq, ma la contrapposizione tra due visioni del mondo.

A fugare gli ottimismi di coloro che, in Europa, invocano un cambio al vertice dell’amministrazione americana come panacea di tutti i mali, è la constatazione che una simile situazione non è il prodotto di scelte politiche particolari,ma rappresenta una condizione strutturale, che rinvia alla mutata condizione geopolitica del mondo. Il problema della legittimità nasce soltanto all’interno di un universo politico unipolare: in un mondo bipolare, la legittimità del potere americano era indiscutibile, perché fondata sull’esistenza dell’impero sovietico. In un celebre saggio scritto all’indomani del crollo del muro di Berlino, Francio Fukuyama salutava la vittoria delle democrazie liberali. Il problema non è che Fukuyama avesse torto,ma che, in un certo senso, abbia avuto ragione: «L’Islam militante e radicale – scrive Kagan -, qualsiasi possa essere il suo potenziale di pericolosità quando assume la forma del terrorismo, non può in alcun modo sostituire il comunismo come minaccia ideologica per la democrazia liberale dell’Occidente». A torto o a ragione, il terrorismo e il fondamentalismo islamico non rappresentano, agli occhi della maggior parte degli Europei, un avversario paragonabile all’Unione Sovietica. Con la caduta del muro di Berlino sono venuti meno i presupposti della legittimità della leadership americana. L’Occidente è diviso perché non c’è più un nemico comune contro cui combattere. Per l’Europa – conclude Kagan – il pericolo più grande non è il terrorismo, cui spera di potersi sottrarre,ma un’America priva di vincoli.
L’esigenza di limitare la sola superpotenza esistente è radicata nella tradizione liberale, che rifiuta l’idea di un potere che abbia come unico freno il proprio senso del limite.Ma l’elemento che, sul piano della politica interna, è in grado di svolgere tale funzione – il governo della legge – sembra inefficace sul piano internazionale. Contro l’unilateralismo dell’azione americana in Iraq, si è invocata da più parti la necessità di regole universali. L’autorità legale e morale, ha scritto il ministro degli esteri francese Dominique de Villepin, può venire unicamente dalle Nazioni Unite, in particolare dal Consiglio di Sicurezza. Secondo alcuni, l’emblema dell’illegittimità dell’azione politica degli Stati Uniti, il segno del disprezzo dell’ordine e della legge internazionali, è la decisione di intraprendere azioni preventive. Secondo altri, il problema non è tanto la guerra preventiva, ma chi la conduce e con quale legittimazione, in altre parole, chi decide di intraprendere azioni preventive: solo il multilateralismo è in grado di ridare legittimità alla politica estera americana.
La polemica di Kagan si rivolge contro i fautori di quest’ultima tesi: sollevare la questione di legittimità è l’unica risposta europea alla condizione unipolare, e dunque il risultato di una lotta di potere tra le due sponde dell’Atlantico per aumentare la propria sfera di influenza. Kagan tenta di dimostrare il particolarismo dell’universalismo europeo. Il suo discorso ruota attorno alla definizione di multilateralismo: o il multilateralismo implica la richiesta di legittimazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – e allora è pressoché impraticabile e di fatto poco praticato – oppure diventa un concetto ambiguo. «Le eccezioni possono rivelarsi letali»: l’eccezione è il precedente della guerra in Kosovo. Allora, gli Stati Uniti e l’Europa furono concordi nell’affermare congiuntamente i principi, liberali e occidentali, di responsabilità morale e umanitaria. L’etica ebbe la meglio sul diritto internazionale, mentre molte nazioni dell’America Latina, dell’Africa e del mondo arabo si opposero al mancato rispetto della Carta delle Nazioni Unite. Chi è convinto che la guerra in Kosovo fosse legittima, pur senza l’appoggio del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, non può negare che lo sia l’intervento in Iraq, dove gli americani hanno agito senza avere l’appoggio dell’Europa, ma certo non da soli.
Chi sostiene il contrario dimostra di concepire la legittimità internazionale esclusivamente in termini europei: «L’amministrazione Bush non era unilateralista perché le mancasse l’appoggio di Mosca e Pechino, ma perché aveva perso il consenso di Parigi e Berlino».
La questione di fondo è che la visione liberale del progresso, in politica internazionale, è sempre stata «bifocale»: da una parte il liberalismo ha coltivato l’idea che la pace mondiale potesse basarsi su un sistema di diritto internazionale fondato sul principio dell’uguaglianza inviolabile e sovrana di tutte le nazioni, dall’altra il pensiero liberale si fonda sulla garanzia e sulla tutela, in ogni parte del mondo, dei diritti e delle libertà individuali, che talvolta è necessario imporre attraverso l’uso della forza. Oggi più che mai l’Europa è chiamata a scegliere «quale visione dell’internazionalismo liberale intende veramente perseguire».
Sulla singolarità del movimento neoconservatore, sulla capacità di un gruppo di intellettuali di influenzare le sorti del mondo, si sono scritti fiumi d’inchiostro. Alla rapidità della loro ascesa sembra aver fatto seguito un altrettanto rapido declino: «i neoconservatori sono passati di moda» ha ricordato Edward Luttwack in un’intervista pubblicata sulla Stampa del 26 Settembre. Di fatto, nell’ultimo anno, l’influenza del movimento neocon sulla politica americana si è indebolita, anche a seguito delle difficoltà della guerra in Iraq. Lo stesso Kagan sembra prendere le distanze, se non altro nel tono, da alcune delle tesi più radicali espresse in Paradiso e potere (Mondadori 2003): la parte finale del libro è una mano tesa nei confronti dell’alleato europeo. Il limite dell’amministrazione Bush non deriva dall’aver posto al centro della politica estera americana il concetto di “interesse nazionale”, ma dall’averlo interpretato in senso restrittivo. E’ questa la tesi del “realista per eccellenza” Henry Kissinger: in Iraq e nel resto del mondo gli Stati Uniti saranno giudicati per la capacità di promuovere i principi della democrazia liberale, non soltanto come mezzo per ottenere maggior sicurezza, ma come fine in sé. Da questo punto di vista, e non certo da quello militare o economico, il contributo europeo può risultare determinante.
Perché ciò accada, tuttavia, è necessario un nuovo patto tra Usa ed Europa, che parta da una valutazione comune dell’attuale minaccia globale e che consenta di superare quella disparità di giudizio sul terrorismo, e sui mezzi per fronteggiarlo, che ha lacerato l’Occidente.
Per risolvere il problema della legittimità non bastano gli interessi: occorre ripartire dalle idee e dai valori comuni, da quello scisma filosofico che a tutt’oggi divide Europa e Stati Uniti.

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