Lezioni dalla storia: il personaggio che potrebbe aiutarci a ripartire
Esponente della destra storica e uomo ombra del conte, fu il primo ebreo a diventare senatore del Regno.
«Domani voglio che Artom si trovi qui alle cinque, non c’è tempo da perdere», sarebbero state le ultima parole del Conte di Cavour sul letto di morte. Era il 6 giugno 1861, appena tre mesi prima aveva firmato la legge che proclamava il Regno d’Italia. Venezia era ancora in mano agli austriaci, e a Roma regnava il papa, ma il governo della destra storica era riuscito nell’impresa di fare dell’Italia un solo paese. Isacco Artom fu segretario particolare di Cavour dal 1858.
Molto di più di una collaborazione, la sua: un’ammirazione spinta fino all’identificazione con chi progettò e realizzò quell’opera straordinaria, un’adesione totale ai principi liberali che ne furono fondamento e strumento, le «eterne, giuste, provvidenti leggi», come ebbe a scrivere in una poesia per l’inaugurazione di un monumento a Cavour.
Quando questi morì, il suo impulso fu di abbandonare la vita politica. Ne fu dissuaso, e proseguì nella realizzazione del disegno: segretario generale degli Esteri dal 1870, gestì la complicata situazione internazionale creatasi con la presa di Roma. Quando il 18 marzo 1876 il governo passò dalla destra storica alla sinistra di Depretis, chiese e ottenne l’esonero dalle sue funzioni. Cinque giorni dopo Isacco Artom veniva nominato senatore del Regno, il primo ebreo ad entrare in quel consesso.
La storia non si ripete mai: è in senso metaforico che ci impartisce le sue lezioni. I grandi del passato tali furono proprio perché seppero agire nello specifico delle circostanze in cui vissero, affatto diverse da quelle odierne. Solo in senso molto indiretto può venire uno stimolo per il presente dal comparare “le morte stagioni” alla “presente e viva”. Solo in questo senso, oggi che i principi liberali, già fugacemente esibiti, sono del tutto accantonati, il ricordo di come l’unico vero governo liberale seppe in pochi anni «foggiare il Piemonte sul modello dell’Inghilterra» può servire a fornire sostegno al governo liberale di cui avremmo bisogno. Oggi che la coscienza della nazione a molti appare un fastidioso reperto, può servire ricordare gli anni in cui essa si formò. Oggi che, anche a voler prescindere da episodi con profili penali, la politica fa fatica perfino a nominare i membri delle Autorità, può servire ricordare il ruolo che i figli della borghesia delle professioni ebbero nel creare le infrastrutture organizzative del nuovo stato.
Ecco perché Isacco Artom. Perché ai principi liberali, in cui era cresciuto, il politico Artom aderì intimamente e appassionatamente per tutta la vita. Perché è grazie ai documenti raccolti e sistemati dallo storico Artom che abbiamo la memoria degli eventi di cui stiamo per celebrare il 150° anniversario. Perché il civil servant Artom, a fianco di Cavour prima e poi come direttore generale degli Esteri, è l’esempio di quanto essenziale sia il contributo fornito alla politica da personaggi che rivestono quel ruolo. Lasceremo che sia lui stesso a darcene testimonianza, con gli scritti suoi e con quelli da lui raccolti.
Un “nato ad Asti”, anche lui: la sua famiglia, presente nella città dal secolo XVI, vi era una delle più colte e agiate. Le sue convinzioni liberali, la sua diffidenza verso le posizioni giacobine derivano dall’elaborazione delle memorie dei fatti successi in Asti in conseguenza della rivoluzione, e degli effetti che ebbero sulla comunità israelitica e sulla sua famiglia in particolare. Nella notte fra il 27 e il 28 Luglio 1797 era stata proclamata la Repubblica Astese che aveva decretato di abbattere le porte del ghetto e di sostituire la coccarda bianco rossa al distintivo che dovevano portare gli ebrei. Due giorni dopo, soffocata la rivolta e fucilatene i capi, quei provvedimenti favorevoli agli ebrei resero sospetto il nonno di Isacco, Israel, che rischiò l’incriminazione.
Con gli occupanti francesi arrivò anche la parità giuridica indipendentemente dal culto, e il figlio di Israel, Raphael, potè frequentare il Ginnasio, ma non arrivò in tempo per l’Università: nel 1814 la Restaurazione aveva ripristinato gli antichi divieti. Si distanziò dal nucleo cospirativo carbonaro e mazziniano, che si era costituito nel ghetto di Vercelli, e si orientò invece verso principi di liberalismo moderato «trasmettendo ai figli la fiducia in un futuro di libertà e progresso a cui prepararsi attraverso lo studio». Suo figlio Isacco, finite le elementari a Vercelli, per continuare le scuole, a soli 10 anni dovette andare prima a Milano, poi, terminato il liceo, a Pisa per gli studi giuridici. Nel 1848, diciassettenne, ancorché piccolo di statura e fragile di corporatura, parti volontario, combatté a Curtatone e Montanara. L’emancipazione albertina gli consentì di terminare gli studi di giurisprudenza a Torino nel 1853 e di iniziare la carriera diplomatica. Ma la questione ebraica rispuntò: quando già era il collaboratore principale di Cavour, fu attaccato per una lettera al vescovo di Chambéry, firmata da Cavour, ma scritta di suo pugno, molto dura verso il privilegio ecclesiastico. Cavour lo difese con vigore, il quotidiano cattolico «L’Armonia» replicò con un velenoso articolo «Il Conte di Cavour e il suo Isacco»: fu il primo caso di antisemitismo nel Piemonte liberale.
La posizione di segretario particolare del Conte di Cavour, fino a quel momento ricoperta da Costantino Nigra, si era resa libera nel 1858. Cavour in persona gli fece l’esame di assunzione: dovette scrivere una nota su un tema esposto da lui stesso e tradurre in 10 minuti un articolo in tedesco. Quanto scrisse Artom in quegli anni! «Ben sovente qualche intimo visitatore introdotto nella camera del Conte sentiva dietro paravento lo scorrere rapido una penna e ne domandava curioso al Conte la spiegazione. Il conte rispondeva: È il segretario Artom che è sempre con me». Di alcune di queste lettere si conoscono le correzioni e le aggiunte fatte da Cavour. A volte i ruoli s’invertivano. «Negli ultimi anni, scrive il segretario, egli aveva preso l’usanza di farmi assistere alla ripetizione generale dei suoi discorsi. Seduto dirimpetto a me, egli cercava su mio volto, che non poté mai celargli nulla, l’impressione che la sottile e forte orditura della sua argomentazione sopra di me produceva». Rapporti formali, raramente illuminati da squarci di familiarità: «Passava nel salotto ov’io lavorava, e là saltando e correndo come uno scolaro in vacanza, riposava alquanto discorrendo con me ».
«Egli ebbe oltre l’istinti, la scienza della libertà – scrive Artom di Cavour -. Egli aborriva da tutte quelle teorie che hanno apparenza liberali, ma sono dispotiche nel fatto. Spesso parlando di Mazzini e dei repubblicani, egli mi disse: “Ammiro la loro abnegazione, ma il loro fanatismo mi fa orrore”».Per questo «egli rigettava il socialismo, reputandolo negazione della libertà, nella quale poneva la formola suprema della politica interna dello Stato».
Assoluta coerenza tra principi liberali e azione politica, sicché questa discende quasi naturalmente da quelli. Così, ad esempio, il principio del rispetto della libertà individuale è lo strumento dell’azione diplomatica per fare accettare dalle grandi potenze le annessioni dei Ducati, Toscana, Parma e Piacenza. Scrive Artom: «Egli pensava niuna mutazione di fatto poter essere durevole, se prima non fosse maturata nelle idee… Egli faceva di ragion pubblica tutto ciò che non fosse per tornare pericoloso ai gabinetti con cui negoziava, e riuscì, mediante questi frequenti appelli all’opinione pubblica, a sostituire nelle relazioni diplomatiche l’idea di nazionalità al concetto pagano o feudale di Stato: immensa rivoluzione dalla quale è nata l’Italia». Garibaldi è ancora in Sicilia, si avanzano proposte di trattative con i Borboni a Napoli, e Artom, in un promemoria riflette: «Quale fu finora il programma della politica del Conte di Cavour? Esso fu riassunto in questa formula che è generosa ad un tempo e profondamente diplomatica: ascoltar le grida di dolore del popolo italiano. In tutte le note, in tutti i documenti diplomatici si ripeté che se i Principi Italiani e l’Austria stessa avessero adottato una politica liberale ed italiana, il Piemonte sarebbe rimasto quieto e contento a casa sua senza cercare ingrandimenti. È l’impossibilità pei Rogantini suddetti di ben governare che ha reso legittime in faccia all’Europa le annessioni: questa stessa impossibilità deve render legittima l’annessione del mezzodì d’Italia. Questa impossibilità deve essere constatata e dichiarata dai napoletani stessi. Alcuni mesi di esperienza costituzionale condurranno infallibilmente a questo risultato».
Gli stessi principi e stessi argomenti guidano l’azione del governo nei momenti critici della cessione alla Francia di Nizza e della Savoia: Cavour si dichiara, in una lettera al governatore della Savoia, contrario alla cessione, ma rispettoso della volontà dei cittadini. Il principio del rispetto della volontà popolare, che era stato usato per legittimare le annessioni, ora viene invocato sia sul piano esterno, per tranquillizzare un’Inghilterra sospettosa che la cessione di Nizza e Savoia alla Francia destabilizzi gli equilibri europei, sia sul piano interno per indurre gli oppositori a fare bene i conti. Il principio liberale non servirà a convincere Garibaldi, protagonista di un feroce attacco in parlamento.
Garibaldi era l’opposto, e per questo veniva vissuto come un pericolo. Con l’amico Nigra, Artom si lascia andare a considerazioni molto esplicite: «Ora il Ministero dispone di una forza immensa – scrive – che gli permise di far atto d’energia coi preti e coi mazziniani. È d’uopo però di tutta la fiducia di cui gode il Conte nel paese per salvarci dal mal passo in cui ci misero le fortunate temerità di Garibaldi e l’improvviso cambiamento del Re di Napoli… Un altro grande pericolo consiste nel prestigio del nome di Garibaldi e nel pericolo che gli Italiani mettano maggior fiducia nell’eroismo che vince un quaterno al lotto, che nel cauto e lungamente meditato calcolo delle probabilità. Ma a questo pare voglia provvedere lo stesso Garibaldi. Egli sciupa a Palermo, in ripetuti e vani tentativi di costituire un governo a suo modo, l’immensa popolarità di cui s’era circondato il suo nome. I Siciliani non vedono l’ora di liberarsi del loro liberatore».
Cavour fece approvare la legge che faceva di Roma la capitale d’Italia, anche se ancora durava il potere temporale del papa. Le carte di Artom ci consentono di conoscere l’intenso lavorio diplomatico per trovare una soluzione concordata: impressiona il contrasto tra le meschine richieste vaticane e la sua visione lungimirante di “libera Chiesa in libero Stato”, che cercava con passione di trasmettere agli intermediari che in segreto negoziavano con il Cardinale Antonelli: «Sia la Chiesa dichiarata libera in Italia, sede del papato paese ove più che altrove potrebbe ragionevolmente temersi la soverchia sua influenza sulla società civile, e la Chiesa sarà libera in Svizzera, in Germania, in Francia, in Spagna, nel Portogallo, ovunque ove esistono istituzioni liberali ed i popoli si reggono a libertà». Alle obiezioni dei collaboratori opponeva la convinzione che «la ricostituzione della nostra nazionalità non dev’essere sterile pel resto del mondo. A noi spetta di porre fine alla grande battaglia fra le civiltà e la Chiesa, fra la libertà e l’autorità».
Se «per la prima volta dopo tanti secoli, un Italiano fu in grado di esercitar sull’Europa una vera e grande autorità politica» è anche grazie a come il “suo Isacco” scrupolosamente ne interpretò le indicazioni, e intimamente ne condivise i principi..
BIBLIOGRAFIA
Le citazioni nell’articolo sono tratte dai seguenti libri: La comunità ebraica di Asti fra integrazione, sionismo e Shoà, di Rose Marie Sardi (2007); L’opera politica del senatore I. Artom di Ernesto Artom (Bologna, Zanichelli 1906); Il Conte di Cavour in Parlamento, per cura di I. Artom e A. Blanc (Firenze, G. Barbèra, 1868).
agosto 7, 2010