Basta con i programmi che parlano solo di qualche soldo in più (sacrosanto) ma senza premiare il merito. Occorre un nuovo punto di vista. Il progetto “Scuole Pubbliche Autonome” è il cambiamento vero. Eccolo
Per chi votare? Per me è semplice: voterò per chi ai primi posti del suo programma mette la scuola. E non solo aumentando gli stipendi, come è pur giusto fare, ma farlo premiando il merito (e senza ricorre a penosi trucchetti, ad esempio quello di inventarsi la categoria del “docente esperto”, cfr. “Docente ‘esperto’ o ‘diversamente anziano’, di Luigi Oliveri, Phastidio, 8 Agosto 2022).
Oggi è sotto gli occhi di tutti che la scuola non vorrebbe valutare, per non scontentare i genitori, e che essa non viene valutata, per non scontentare gli insegnanti sindacalizzati. Alla scuola andava (2019) il 3,5 per cento del Pil; ma ai test PISA, che con frequenza triennale misurano il livello di istruzione degli adolescenti dei principali paesi industrializzati, nel 2018 l’Italia era nella lettura inferiore e nelle prove di scienza significativamente inferiore ai coetanei dei paesi Ocse. Di questo si ha coscienza, è diffusa l’opinione che la scuola italiana non funzioni bene; ma è difficile trovare due persone che, su come riformarla, la pensino allo stesso modo: inutile quindi tentare di disegnare una riforma che vada bene per tutti. (cfr. “Basta firmare petizioni! Fatemi ministro dell’istruzione, se avete coraggio”, di Marco Lodoli, il Foglio 20 Luglio 2022) La sola soluzione è consentire di fare scuola modo diversificato, senza per questo ricorrere alle scuole private: basta separare la funzione “redistributiva” dello Stato, per cui tutti devono potervi accedere, dalla funzione di “produrre” istruzione. Regolazione e finanziamento restano statali, ma coloro che “producono” istruzione possono essere pubblici o privati. Le scuole devono viaggiare tutte sui binari della regolazione e del finanziamento statale. La riforma che si propone consiste nell’offrire, a quelle che lo desiderano, piena autonomia all’interno di quei limiti. Appunto “scuole pubbliche autonome”. Sono stati Guido Tabellini ed Andrea Ichino, con il loro paper “Liberare la Scuola” del 2013, ad avanzare la proposta, dimostrandone la fattibilità all’interno della nostra legislazione.
Problema: come fa lo Stato a certificare che la scuola abbia ottemperato alle funzioni cui è legato il finanziamento? Come si valutano le scuole? I test standardizzati non colgono la complessità della funzione educativa; le ispezioni richiederebbero di selezionare un’altra volta una classe di “navigator”, capaci del compito impossibile di dare giudizi omogenei in situazioni tanto differenti. La soluzione consiste nello spostare il punto di vista: non sia lo Stato a valutare le scuole, a farlo siano gli studenti e le famiglie con le loro scelte. Ogni studente si porta dietro una “dote” pari al costo che lo Stato ha sopportato per quell’istituto diviso per il numero di studenti: scegliendo una scuola lo studente le versa una certa dote. Ma come scegliere? Come evitare che i genitori scelgano scuole che procurino (o vendano) titoli senza valore? Lo Stato non può fare il valutatore, può però fare l’informatore delle famiglie: riversando ogni anno in una banca dati informazioni su come funziona una scuola, statistiche sugli studi successivi intrapresi dagli studenti che esse hanno diplomato, il loro successo nel mercato del lavoro (se si riuscirà a convincere il garante della privacy a consentire di acquisire un dato così utile agli individui che vuole proteggere).
Se studenti e famiglie hanno informazioni per scegliere, devono poterlo fare. Oggi lo studente può solo comperare “pacchetti”, liceo classico, liceo scientifico, istituto tecnico; le sue scelte sono basate su esperienze passate, quasi sempre casuali. In una scuola autonoma gli studenti devono poter modulare la propria istruzione: questo comporta che l’esame di maturità sia organizzato per materie, alcune (italiano, matematica, lingua straniera) obbligatorie per tutti, altre opzionali. Le università considereranno il superamento degli esami ed i voti conseguiti in certe materie come condizione per essere ammessi, eliminando così i test di accesso.
Non è un cambiamento che si può introdurre con un tratto di penna o con un decreto (non fosse che per la natura poliennale dei corsi di studi). Ad esempio nel Regno Unito dopo 10 anni solo il 20 per cento del totale delle scuole, dopo numerose elezioni, ha optato per il passaggio allo status di autonomia, diventando una Grant-maintained School. Negli Usa invece il modello è quello delle “charter school”, cioè di scuole governate da un contratto tra lo Stato e un ente che si propone come gestore della scuola stessa. Si constata sia per le Grant che per le Charter school che nei confronti tra campioni di scuole o di allievi (scelti in modo da evitare selection bias) le scuole autonome danno risultati migliori delle scuole normali. Enormemente migliori nei contesti sociali disagiati.
L’evidenza empirica dimostra che questo è dovuto in gran parte al cambiamento della qualità degli insegnanti. E’ quindi una condizione essenziale del progetto che la scuola possa, oltre che assumere, anche licenziare insegnanti. E questo pone ovviamente dei problemi: la sperimentazione possa essere accettabile dai sindacati. Andrea Ichino propone una fase transitoria in cui la scuola autonoma è libera di gestirsi come vuole, ma dove gli effetti occupazionali sono temporanei: se la sperimentazione fallisce dobbiamo poter tornare indietro senza che nessuno debba perder ingiustamente il posto di lavoro. Finita la sperimentazione, se si sarà dimostrato che quelli “licenziati” sono proprio gli insegnanti peggiori, è interesse pubblico che essi lascino, e cioè escano, con i debiti ammortizzatori sociali, dal mondo della scuole e vengano assorbiti in altre aree della Pubblica ammistrazione. Mentre la scuola autonoma deve poter assumere chi vuole, giammai dovendo scegliere in qualche lista di precari.
Come si finanziano le scuole pubbliche autonome? Con la dote che ogni allievo si porta dietro: è questo il canale attraverso cui il finanziamento pubblico arriva alle scuole. Se genitori e studenti valutano positivamente la qualità degli insegnanti assunti, cresce il numero degli studenti, e la scuola ottiene un finanziamento maggiore. Se il numero delle richieste supera la disponibilità, si estrae a sorte che potrà essere ammesso: le disponibilità economiche delle famiglia non devono avere effetti sul tipo di scuole, le scuole pubbliche non sono scuole di élite. E poi ci saranno nelle vicinanze altre scuole che si porranno il problema se non fare anche loro la stessa scelta. La scuola dovrebbe abituare i giovani a vivere in una società che si fonda sulla concorrenza: in questo la scuola attuale è largamente deficiente, perché essa stessa ne aborre. La dinamica che si instaurerà tra scuole autonome sarà l’esempio di come la concorrenza aiuti e stimoli il miglioramento. E se la scuola volesse espandersi e investire in nuove attrezzature, che richiedano finanziamenti che eccedono le doti? Le scuole autonome possono ricevere fondi da privati, e ci sono molte ragioni per cui lo facciano. Le industrie locali, ad esempio, potrebbero avere interesse a che la scuola istituisca dei corsi attinenti alle specifiche caratteristiche del territorio in cui operano, sia quelle storiche e culturali, sia quelle tecniche e tecnologiche. Altre iniziative volte a risanare ambienti particolarmente compromessi possono attrarre le società per azioni che hanno deciso di diventare società benefit. Più in generale possono interessare tutte le società che vogliono aumentare il loro valore reputazionale migliorando il proprio rating ESG: nella S di social ha grande rilievo il rapporto dell’azienda col territorio, in particolar modo con quello in cui opera.
La proposta qui delineata richiede a famiglie e studenti di essere più mobili nella zona di residenza. Ragion per cui la sperimentazione dovrebbe partire dalle scuole superoori dove gli studenti lo sono maggiormente. Ma è normale che anche da noi le famiglie un po’ per volta scelgano di abitare anche in funzione del tipo di scuole che preferiscono: anche questa è mobilità sociale…
Come si è detto il progetto delle scuole pubbliche autonome nasce da noi nel 2013, con il paper di Guido Tabellini e Andrea Ichino. Questi ha continuato a lavorare sul tema, ultimamente con l’intervista a “Educare alla libertà” da cui ho largamente tratto, omettendo i virgolettati per non appesantire lo scritto.
Il Next Generation EU pareva il contesto ideale per avviare questa sperimentazione: l’impegno ad avviare alcune centinaia di Scuole Pubbliche Autonome entro lo spazio temporale e i vincoli contrattuali del Pnrr sembrava il modo più sicuro per superare gli ostacoli frapposti in passato. Invece il ministro della Pubblica istruzione si oppose a che il progetto venisse anche solo portato al Consiglio dei ministri. Adesso c’è una nuova occasione: i programmi elettorali che i partiti stanno preparando. Invito tutti a non votare per partiti nei cui programmi gli aumenti retributivi e le progressioni di carriera degli insegnanti non siano in funzione delle loro prestazioni. Invito tutti a votare e sostenere partiti che si impegnino di avviare la sperimentazione di un numero significativo di scuole pubbliche autonome. Personalmente è quello che farò.
di Antonio Gurrado, Il Foglio, 26 agosto 2022 Come Platone voleva i filosofi al governo, gli insegnanti vogliono al governo gli insegnanti. O, quanto meno, desiderano che chi vincerà le elezioni tenga a mente le proposte che i gruppi organizzati di docenti esprimono sotto la gettonata forma di decalogo – ma c’è anche chi si spinge al tridecalogo e al pentadecalogo. Si tratta di documenti che hanno poca o nessuna ricaduta comunicativa di massa ma che circolano con vigore su canali specializzati, i siti che i docenti compulsano in queste settimane prescolastiche di assegnazioni provvisorie, decadenza delle misure anti Covid, definizione dell’organico di fatto, domande per la messa a disposizione e roulette russa delle supplenze. Li firmano sindacati di settore come Gilda e Anief, associazioni con diciture criptiche come Agorà 33, network dalle ambiziose iniziali maiuscole come Regolarità e Trasparenza nella Scuola, per brevità RTS. Pur nelle inevitabili difformità specifiche, emerge netta l’impressione che, se solo governassero gli insegnanti, essere insegnanti sarebbe bellissimo. Nella scuola ideale vagheggiata dalle varie sigle – una scuola che riceve sull’unghia finanziamenti per ulteriori dieci miliardi di euro o incrementi di un punto percentuale del Pil – gli insegnanti godono di un contratto specifico che li distingue dagli altri statali, guadagnano cinquecento euro netti in più al mese (RTS, forse per l’emozione del vertiginoso aumento, parla di “500 euro nette”), ottengono una quattordicesima per ciascun figlio minorenne a carico, vengono sollevati dal carico burocratico, non devono sottoporsi ad aggiornamento e comunque solo in orario retribuito, usufruiscono di un anno sabbatico ogni dieci anni, riscattano gratuitamente gli anni di università, lavorano nove ore a settimana raggiunti i sessantadue anni d’età e possono decidere di andare in pensione poco dopo, quando preferiscono e senza decurtazioni rispetto al termine massimo, lavorando di fatto negli ultimi anni solo se hanno voglia di fare un favore allo Stato. Alcune proposte sembrano de minimis – come il ritorno del vicepreside scelto dai colleghi, anziché nominato dal dirigente, oppure l’elezione di un presidente del Collegio docenti – ma nascondono un risentimento più profondo e sottaciuto, tutto volto a limitare la libertà d’azione della dirigenza scolastica e con essa l’eventualità che l’insegnamento venga valutato in termini di risultati concreti. Agorà parla infatti del “superamento di un apparato para-aziendalistico del tutto incongruente rispetto alla natura e agli scopi dell’istruzione pubblica”; Gilda dedica il più lungo comandamento del suo decalogo alla “revisione del sistema dell’autonomia delle scuole in una visione non aziendalistica delle Istituzioni scolastiche”, facile a tradursi in sostanziale immobilismo. Si va dal grande classico della stabilizzazione del precariato all’istituzione di “un organico di istituto funzionale, stabile, di durata pari al corso di studi”, che garantisca continuità didattica mantenendo immutato il corpo docente; per poi culminare nel “riconoscimento dell’anzianità di servizio quale elemento fondamentale della carriera dei docenti”, come a dire che basta respirare e buonanotte al giudizio sulla qualità. Non a caso l’abolizione dell’Invalsi – e delle sue malviste prove valutate secondo criteri oggettivi su scala nazionale – si trova a chiare lettere nei manifesti di RTS e Agorà. Ma è solo parte di una smania abolizionista che percorre i punti dei vari manifesti. Va abolita l’autonomia scolastica. Va abolito il Pcto, reincarnazione dell’alternanza scuola-lavoro. Va abolita in tronco la Buona Scuola, stralciando solo la Carta del docente, il cui valore va invece raddoppiato da cinquecento a mille euro. Va abolita anche la Scuola di Alta Formazione degli insegnanti prevista dal Pnrr, conseguendo l’ammirevole record di bocciarla prima ancora che venga indetta. Certo, qualche proposta interessante affiora qua e là in questi volantini che mescolano cahiers de doléances e proiezioni ipnagogiche: l’incremento del numero di ore curricolari per potenziare l’insegnamento delle discipline di base, il ripristino della commissione esterna alla Maturità, ovviamente l’investimento nell’edilizia scolastica che consentirebbe di aumentare le aule riducendo l’affollamento delle classi, e magari anche un’indennità di trasferta per i supplenti che vengono scaraventati lontanissimo da dove abitano. Principale scopo di tali manifesti sembra tuttavia essere proprio rafforzare nei docenti di ogni grado la consapevolezza di sentirsi categoria vessata, illudersi di esercitare un ricatto morale sull’élite politica (RTS invita espressamente a non votare i partiti che non adottano il suo decalogo) ed esortare gli insegnanti a far fronte comune: tutti insieme, quasi settecentomila, spostano circa il 2 per cento dei voti. Sarà forse per questo che, insistendo sul valore dell’istituzione scolastica come “organo costituzionale della democrazia”, Agorà propone di porre gli insegnanti al riparo da qualsiasi critica, sotto forma di un “codice deontologico per tutti coloro che si occupano di scuola a livello dirigenziale, amministrativo, politico” che “imponga il rispetto della professionalità dei docenti e la tutela della loro immagine pubblica”. Ingolositi dal solo immaginarsi al potere, gli insegnanti non resistono alla tentazione di eliminare una volta per tutte il rischio di sentirsi apostrofare come poco qualificati, refrattari alla valutazione, iper sindacalizzati e privilegiati. Se gli insegnanti governassero, un insegnante non avrebbe mai potuto scrivere quest’articolo.
Nessuno ci può valutare ma ci dovete pagare. E abbasso l’autonomia. Il triste soviet dei prof.
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L.M.
2 annoe fa
Caro Franco condivido quello che scrivi.Ricorda che la scelta degli insegnanti è vietata perché fanno un concorso nazionale. Punto
Quando Salvini propose che le assunzioni fossero fatte su base regionale per evitare il precariato, venne massacrato.
Franco Debenedetti
2 annoe fa
Ma non richiede necessariamente alcuna riforma costituzionale: basta fare come per i prof universitari. Abilitazione light e poi libera scelta
gc
2 annoe fa
Parto da una premessa storica. Il liberismo è la libertà in un mondo capitalistico porta inevitabilmente alla stratificazione sociale e alla riduzione della permeabilità. La storia economica e sociale dell’impero romano ne è solo uno degli infiniti esempi.
Per avere una società che esprima il massimo potenziale è necessario che ci siano alcune condizioni:
- un ascensore sociale che funzioni
- meccanismi di redistribuzione nello spazio ( tra livelli di ricchezza) e nel tempo ( tra generazioni).
Un ascensore sociale ha bisogno di due condizioni : il riconoscimento del merito e una tassazione ridotta sui redditi da lavoro.
Ciò premesso entro nel cuore del tuo commento.
La scuola oggi non è in grado ne di creare il merito ne di farlo riconoscere.
Un esempio personale. 40 anni fa chi prendeva 110 e lode a ingegneria era una minoranza e si assumeva che avesse una solida formazione di base che gli permettesse di entrare in argomenti lavorativi con freschezza e profondità.
Negli ultimi anni ho cercato di individuare i talenti che uscivano dalla università. I miei mi dicevano che erano migliaia quelli che avevano 110 e lode e che però alla prova del colloquio si dimostravano inadeguati.
Il sistema educativo quindi non ha permesso di selezionare. E questo è già un problema.
Poi c’è il tema della qualità della formazione, o meglio educazione.
Fammi dire due parole sui due termini. Quando sentivo pronunciare in qualche convegno la parola “formazione “ mi veniva un brivido. Ho sempre ribattuto che le aziende non vogliono persone formate ( almeno a livello universitario) ma persone educate. La differenza non è banale. Non vi sarà mai una università in grado di formare a dei task che possono essere utili alle imprese. Che invece vogliono persone con una formazione di base solida per poter affrontare tutte le sfide di quell’ambito professionale. La educazione in università e la formazione on the job quindi. Pensare il contrario porta alla dequalificazione delle università.
Ma all’estero è meglio? Prendiamo il sistema francese. Che esce da una grand’ecole non ha nulla in più in termini di bagaglio da chi esce da una buona università italiana. A che serve allora tutto il loro sistema delle Grandes Ecoles ? Semplicemente a selezionare una classe dirigente e a tenere vivo in potentissimo ( anche se con posti limitati) ascensore sociale. Vantaggi? Una delle migliori burocrazie del mondo. Svantaggi? Il lasciare fuori dall’ascensore tanti talenti che magari a 14 anni preferivano fare altro che studiare disperatamente.
Ci deve essere sicuramente un punto di equilibrio tra il modello francese che punta a selezionare e quello italiano che punta ad allineare verso il basso.
Come lo si costruisce?
- con una chiara gerarchia delle università ( nazionali di educazione e selezione e locali di formazione)
-con una chiara meritocrazia tra gli studenti. ( ad esempio grading)
- il profondo ripensamento della riforma universitaria che ha allineato tutto verso il basso.
Ed il corpo insegnante? Ho poca speranza. È una delle categorie più aduse allo scambio e alla cordata. Quello che abbiamo oggi è il risultato di una selezione negativa ( potevi restare all’università solo se avevi famiglia ricca e non avevi opportunità migliori ).
Ma in quindici anni di attenta selezione e educazione degli studenti non potrà che migliorare. Nel frattempo?
Nel frattempo tutto quello che hai scritto lo condivido appieno.
Un caro saluto.
gc