La mattina di venerdì 7 febbraio ho letto sulle colonne di questo giornale l’articolo in cui Leonardo Maugeri raffronta l’industria del venture capital in Usa e in Italia: «In Italia, secondo i dati di “Start Up Italia”, esistono solo 1.127 start up innovative, di cui solo 113 finanziate, per un misero totale di poco più di 110 milioni investiti nel 2013. Niente, rispetto agli oltre 10 miliardi di dollari che – nel 2013 – i soli venture capital statunitensi hanno trainato su start-up americane.
Nel complesso, esistono (dati Aifi – Associazione Italiana Private Equity e Venture Capital) non più di 13 venture capital (contro i quasi 2.000 degli Stati Uniti o gli 800 della Germania)». Poche ore dopo, dalla viva voce di uno dei massimi esponenti comunitari, apprendo che Bruxelles, nell’ambito di un piano denominato Rinascimento Europeo, stanzia fondi per incentivare il ricorso a questo tipo di finanziamento da parte delle imprese (quelle piccole e medie, manco a dirlo).
Domanda: posto che non risulta che mai stato nessuno né a Washington, né a Sacramento nè a Palo Alto abbia stanziato soldi pubblici per incentivare privati a farsi finanziare, non sarà che il ricorso, da noi così modesto, a questo strumento e l’iniziativa pubblica di promuoverlo economicamente siano due conseguenze di una stessa causa? In un Paese in cui i cittadini sono abituati a chiedere incentivi e le istituzioni sono pronte ad offrirglieli, è naturale che gli imprenditori non si diano da fare per cercare una modalità di finanziamento diversa da quella a cui sono abituati, e che l’industria finanziaria non investa per offrirla.
Il rischio è sempre il cuore del problema. In un finanziamento, provvedere ai soldi è il meno, il fattore critico è assegnare il merito di credito. Finanziare comporta un rischio, e il venture capital è un modo diverso di dare un prezzo al rischio: per l’imprenditore quello di prendersi in casa un estraneo per raggiungere un obbiettivo a cui altrimenti non potrebbe puntare; per il finanziatore quello ridurre il rischio ripartendolo su un numero sufficientemente grande di iniziative non correlate e di potere uscire monetizzando. Servono sistemi giudiziari rapidi nel risolvere le controversie, mercati finanziari vivaci, flessibilità nell’adattare l’impiego dei fattori di produzione, il lavoro in primo luogo. È quando queste condizioni non ci sono che si offrono incentivi: vorrebbero essere una compensazione, sono una conferma. Se il problema politico è quello di modificare l’atteggiamento degli operatori verso il rischio, offrire un incentivo è controproducente.
L’atteggiamento verso il rischio è centrale anche nella cosiddetta “politica industriale”, la cui mancanza sarebbe, stando a quanto si sente (e si legge), all’origine della nostra stagnazione. Tradotto in soldoni, “politica industriale” vuol poi dire chiedere allo stato di assumersi il rischio di individuare i settori in cui gli industriali dovrebbero investire, e di erogare sussidi atti a incoraggiare i dubbiosi e convincere gli scettici.
L’atteggiamento degli italiani verso il rischio non è un dato antropologico. Per i nostri compatrioti, imprenditori o lavoratori, Paese che vai rischio che trovi, si adattano con flessibilità e con profitto. Per restare al venture capital, là dove questa industria è diffusa, potremmo trovare italiani dalle due parti del tavolo, quella del finanziatore e quella del finanziato. Non è il genoma a determinare l’atteggiamento verso il rischio, sono le strutture sociali e le leggi, scritte e non scritte, su cui si reggono. Nel caso del credito, noi siamo un Paese bancocentrico, passa attraverso le banche la totalità dei rapporti finanziari delle imprese, cercare di cambiare e provare altri modi di finanziarsi rappresenta un certo rischio. Nel caso del welfare, secondo alcuni la più grande invenzione europea, lo stato offre di sostituirsi all’iniziativa individuale per assicurare contro il rischio, di incidenti, malattie e per la vecchiaia; il cittadino accetta l’offerta, consentendo in cambio di finanziare le gigantesche strutture de welfare.
L’atteggiamento verso il rischio spunta fuori nei posti più impensati, perfino nella scelta del sistema elettorale. Se il proporzionale è negli inconfessati desideri di tanti partiti, è perché evita ai piccoli il rischio di non superare le soglie di sbarramento e consente ai grandi di non giocarsi tutto in un giorno, ma di negoziare maggioranze in parlamento. Non è solo un caso che il sistema del confronto diretto, il first by the post, sia la regola in Paesi dove prospera l’industria del venture capital. Non è certamente un caso che la nostra classe politica, pur di evitare i rischi di fare le riforme, preferisca chiedere alle istituzioni europee di intervenire per eliminare i rischi di spread o peggio.
Ma è nel nostro mercato del lavoro che l’atteggiamento verso il rischio produce effetti più pervasivi, e lo scambio tra protezione e rischio quelli più negativi. Più pervasivi perché nel mercato del lavoro si svolge l’attività primaria di tutti i cittadini, di chi ha un lavoro e di chi il lavoro non ce l’ha. Più negativi, perché appare particolarmente odioso che, pur di evitare il rischio per un numero (sempre più esiguo) di “privilegiati” di rinunciare al diritto (sempre più evanescente) alla job property, e pur di garantire ai sindacati il loro potere politico, si accetti un mercato del lavoro così ingiusto e inefficiente. Ingiusto per coloro che ne sono esclusi o vivacchiano a margine; inefficiente per le imprese che ricorrono a forme contrattuali che non favoriscono la costruzione di capitale umano.
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febbraio 14, 2014