da Peccati Capitali
La sentenza del Tribunale di Milano nella causa Vividown contro Google ha valenza generale, se ne può dunque ragionare a prescindere dal vergognoso episodio di bullismo da cui ha preso le mosse: non è lecito mettere online immagini di persone senza averne ottenuto il consenso.
Nella polemica sono stati invocati alti principi – libertà della rete, neutralità del provider, odiosità della censura – ; considerazioni pratiche – come si fa?; – concreti interessi – il copyright, le tasse.
Ma nessuno si è chiesto: sul web, la gente vuole la protezione della privacy o il suo contrario? Luca Barbareschi ricorda che quando faceva il conduttore di “Ci eravamo tanto amati”, gente che aveva appena finito di rovesciarsi addosso senza pudore i particolari più sordidi, nell’intervallo pubblicitario gli chiedeva se bastava o se doveva andarci giù ancora più pesante. La stracitata profezia fatta da Andy Warhol nell’epoca della televisione, che tutti potranno essere famosi per 15 minuti, il web dà l’illusione di poterla realizzare. Viviamo in una società in cui, come scrive Jean Baudrillard, “la nostra verità resta sul lato [...] dell’esibizione, della confessione, della messa a nudo: niente è vero se non è prima stato desacralizzato, oggettivato, spogliato della sua aura e trascinato sulla scena“. Difendiamo la privacy dai ficcanaso degli alberghi, delle carte di credito, del fisco. Ma se si tratta di comparire in rete, in un clippino che acchiappi i click a migliaia, non ci sono limiti a ciò che si è disposti a fare. Alla faccia della privacy.
marzo 17, 2010