Come non è lo Stato ad avere ricchezze proprie ma sono i cittadini a possederle, così non è lo Stato ad avere interessi propri ma le strutture che essi creano per gestirle, tipicamente le aziende. Sono loro che possono decidere che cosa fare dei propri beni, vendere o comprare, tutto o parte: primo perché questo è il significato di diritto di proprietà, secondo perché il proprietario dispone di maggiori informazioni di chiunque altro per decidere sul da farsi. Sembra dimenticarlo chi giudica operazioni societarie sulla base di un astratto, perché ideologico, interesse del Paese, senza neppure capire quali sono gli interessi concreti delle parti in causa. A volte, può bastare un minimo di analisi: come nel caso Marelli.
Nel settore automobilistico, quando progressi tecnologici e variazioni di quote di mercato erano incrementali, l’integrazione verticale presentava vantaggi, di costo, di regolarità delle forniture: e molti grandi gruppi auto si dotarono di aziende di componenti proprietariamente integrate. Oggi che il cambiamento verso vetture ibride ed elettriche sconvolge mercati e tecnologie produttive, sussistono ancora quei vantaggi?
Dal lato dell’azienda di componenti l’interesse è sviluppare prodotti con le migliori tecnologie, e venderne la massima quantità possibile. Se è parte di un gruppo automobilistico, già in passato vendere a un concorrente del proprio “padrone” era un ostacolo. Oggi lo è ancora di più. Infatti il progresso tecnologico non si compie solo nelle torri d’avorio di università e centri di ricerca, ma assai di più “sul campo”, nell’interazione tra fornitore e cliente, e nella concorrenza/collaborazione tra fornitori. L’anomalia di essere di proprietà dal proprio cliente introduce diffidenza nei rapporti con gli altri clienti e ostacola le collaborazioni tra fornitori.
Dal lato della fabbrica di auto gli interessi sono speculari: avere accesso alle miglior tecnologie e pagarle il meno possibile. Quindi avere libertà di accedere a quanti più fornitori possibili, per scegliere la tecnologia migliore e per metterli in concorrenza sul prezzo, senza essere condizionati dalle conseguenze negative che le sue scelte potrebbero avere sull’azienda di componenti integrata nel gruppo.
Dal lato della holding proprietaria di entrambi, componenti e auto, c’è il doppio interesse a eliminare un’anomalia che costa, adesso in maggior misura, sul piano operativo e su quello patrimoniale. Altri l’han fatto: è uno spin-off della Nissan la Calsonic Kansel, proprietà del gruppo di private equity KKR che ha comperato Marelli. Se l’operazione ha effetti positivi per sia per Marelli sia per FCA, ostacolarla non può che avere effetti negativi per il Paese. Pessima idea quindi suggerire a un governo, che tra l’altro non ha bisogno di sollecitazioni interventiste, di azionare il golden power tecnologico. Si rivelerebbe non d’oro ma di piombo: quando vivace è lo sviluppo tecnologico, chiudersi significa inaridirsi.
Altra cosa è chiedersi se questo era l’unico modo di realizzare la separazione, se la stessa operazione non poteva farsi a parti invertite, da un gruppo finanziario italiano che acquista prima Marelli e poi lo spin-off della Nissan. Certo che se si scorre l‘elenco di aziende italiane comperate da aziende estere, da Pirelli a Italcementi, da Bulgari a Loro Piana, per finire alla recentissima Guzzini, qualche domanda è lecito porsela. Interpretare questi fatti come “centralità della finanza rispetto all’economia”, e demonizzarla come manifestazione della “crisi del capitalismo”, anzi del “turbocapitalismo”, come scrive Graziano del Rio (la Repubblica 23 Ottobre 2018), è a modo suo una spiegazione: infatti se questa fosse l’ideologia prevalente, perché mai gli italiani dovrebbero confidare i loro risparmi a istituzioni finanziarie se queste fanno parte di un mondo che egli giudica “a fine corsa”?
E’ invece proprio “la finanza” che consente a chi ha solo il suo capitale umano di diventare ricco; che facilita il passaggio generazionale, prospetta orizzonti più ampi, garantisce il sostegno per raggiungerli. E’ lì, all’articolato sistema di finanziamento delle imprese, che bisogna guardare per capire perché sono più aziende straniere a comprare aziende italiane, che il contrario.
Quanto a Marelli, entrare nel mondo della finanza imprenditoriale del private equity e del venture capital, non avere né vincoli né ostacoli a muoversi nel mercato dei prodotti e delle tecnologie, rappresenta una grande opportunità. Che riesca a coglierla dipende da lei: dipende anche, e non poco, dal Paese.
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di Fulvio Coltorti – First Online, 26 ottobre 2018
S.C.
6 annoe fa
Il tema è sul mio tavolo praticamente ogni giorno.
Vedere aziende con grandi prospettive e potenzialità, cercare partners strategici per lasciare la “spugna” ne incontro da anni. Il problema è che, indipendentemente dalla grandezza dell’azienda, le famiglie che le posseggono e gestiscono, non riescono a delegare, a pensare di avere un’azienda acquisita negli USA, o nella più vicina Europa, senza occuparsene direttamente e nei dettagli. Questo è un nostro grande limite, della nostra imprenditoria che ha fatto bene fino a che c’erano da conquistare mercati vicini e con le proprie forze, ma quando ci si deve ingrandire, si ha paura di “perdere il controllo” o di fidarsi di managers che spesso potrebbero anche non parlare l’Italiano.
Basti analizzare alcuni deal degli ultimi anni, vediamo che la Pizza è diventata popolare e diffusissima, nel mondo ed in Asia, anche grazie ai colossi tipo Pizza hut a Pizza Express. Quest’ultima catena di 2500 negozi, è stata acquisita per 2.5 miliardi di sterline da un player cinese che la sta ora diffondendo anche in Cina… abbiamo Starbucks che utilizzando macchinari made in italy, format italiani, è divenuto un colosso da oltre 20 miliardi di Euro e noi ci meravigliamo quando compra Princi di Milano. Ora nei vari negozi più importanti, i dolci e le paste, le pizze Princi sono targate italiano ma portate nel mondo dagli americani. Ma che cosa fanno Lavazza, Illy, e tanti altri players del caffè in stile italiano? non si sa. Almeno quello che fanno non è evidente.
Parmalat senza Lactalis sarebbe ora un’azienda finita, come tante altre aziende che stavano per fallire. Ora abbiamo persino la Bialetti, nostro clienti di anni fa, che sta per saltare con 68 milioni di debito.
Cosa è meglio, che salti o che venga acquisito, salvato da un cinese, un francese o altro? cosa vogliamo? è questa la domanda.
Gli imprenditori italiani, la classe politica pure, sono responsabili di queste incertezze, e io sono ben felice che le nostre aziende siano apprezzate e aiutate sui vari mercati da partners strategici. In Spagna la stampa accoglie sempre molto volentieri le acquisizioni, da noi si scagliano contro tutti… si crea così un clima difficile. Quando parlo con i cinesi, il tema reputazionale è sempre sul tavolo. Si ha timore di avere la stampa e la politica contro, e non hanno tutti i torti, pur non registrandosi in Europa una sola azienda fallita o delocalizzata per mano dei cinesi. Un caso recente che abbiamo seguito da poco è eclatante. Un’azienda nel settore bio-medicale è stata venduta ad un player cinese nel 2017. In poco meno di un anno, il fatturato è cresciuto del 55%, Ebitda in incremento del 25% e hanno assunto 40 persone raddoppiando così il personale, senza contare che il mercato cinese porterà loro a moltiplicare ulteriormente questi numeri. Non se ne è parlato proprio per evitare che in Italia l’azienda venisse vista come cinese. Il proprietario, senza discendenza, non aveva alternative: venderla o lasciarla a chi??
Scusate per questo intervento, ma è proprio frustrante vedere le cose collassare così in Italia, pieni del nostro provincialismo e campanilismo (ora lo chiamano sovranismo) che ci porterà solo a discendere a breve sotto la Nigeria in termini di PIL e di importanza nel mondo, con migliaia di giovani senza speranza emigrare altrove…
M.F.
6 annoe fa
Concordo pienamente. Dopo aver fatto per oltre venti anni evangelizzazione a tutti i livelli, imprenditoriali, di associazione e istituzionali, dopo le importanti modifiche legislative ottenute, quali i Fondi chiusi, la liceità dei leveraged buyout, i matching fund statali, i fondi regionali di venture capital, le agevolazioni sulle stat up e infine sull’industria 4.0, è particolarmente debilitante che ci siano ancora politici e giornalisti che non riconoscano i vantaggi industriali, manageriali, di sviluppo e di internazionalizzazione, indipendentemente da quelli finanziari, di private equity e venture capital. Semmai il problema italiano è ancora la modestia degli investimenti istituzionali in questi strumenti finanziari che peraltro, è ormai statistica, hanno generato nel tempo ritorni significativamente più alti di quelli in public equity e con minore volatilità.
Demonizzare la finanza d’impresa con slogan ideologici superati dalla storia significa non solo ignorare i fatti di realtà ma anche rendere più difficile alle imprese italiane affrontare i complessi processi di sviluppo e di ristrutturazione necessari per adeguarsi al nuovo, duro contesto competitivo internazionale in continua e accelerata trasformazione societaria, imprenditoriale, tecnologica e di mercato.
Il caso specifico coinvolge non solo la tecnologia e i modelli di business dell’automotive, ma ancora più la confluenza con il cambiamento in atto nelle telecomunicazioni che con il 5G si evolvono verso modelli di piattaforme e reti enabling di sistemi IOT, tra cui appunto l’auto come collettore e generatore di big data e l’auto a guida autonoma.
Mi auguro che ci si renda conto che senza il supporto della finanza d’impresa, con suoi capitali di lungo termine e i suoi network relazionali imprenditoriali, istituzionali e tecnologici, sarà molto difficile per il sistema industriale italiano affrontare con successo questa fase di “distruzione creativa”.