Interessi nazionali, sviluppo e concorrenza

ottobre 27, 2018


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


La cessione di Marelli

Come non è lo Stato ad avere ricchezze proprie ma sono i cittadini a possederle, così non è lo Stato ad avere interessi propri ma le strutture che essi creano per gestirle, tipicamente le aziende. Sono loro che possono decidere che cosa fare dei propri beni, vendere o comprare, tutto o parte: primo perché questo è il significato di diritto di proprietà, secondo perché il proprietario dispone di maggiori informazioni di chiunque altro per decidere sul da farsi. Sembra dimenticarlo chi giudica operazioni societarie sulla base di un astratto, perché ideologico, interesse del Paese, senza neppure capire quali sono gli interessi concreti delle parti in causa. A volte, può bastare un minimo di analisi: come nel caso Marelli.

Nel settore automobilistico, quando progressi tecnologici e variazioni di quote di mercato erano incrementali, l’integrazione verticale presentava vantaggi, di costo, di regolarità delle forniture: e molti grandi gruppi auto si dotarono di aziende di componenti proprietariamente integrate. Oggi che il cambiamento verso vetture ibride ed elettriche sconvolge mercati e tecnologie produttive, sussistono ancora quei vantaggi?

Dal lato dell’azienda di componenti l’interesse è sviluppare prodotti con le migliori tecnologie, e venderne la massima quantità possibile. Se è parte di un gruppo automobilistico, già in passato vendere a un concorrente del proprio “padrone” era un ostacolo. Oggi lo è ancora di più. Infatti il progresso tecnologico non si compie solo nelle torri d’avorio di università e centri di ricerca, ma assai di più “sul campo”, nell’interazione tra fornitore e cliente, e nella concorrenza/collaborazione tra fornitori. L’anomalia di essere di proprietà dal proprio cliente introduce diffidenza nei rapporti con gli altri clienti e ostacola le collaborazioni tra fornitori.

Dal lato della fabbrica di auto gli interessi sono speculari: avere accesso alle miglior tecnologie e pagarle il meno possibile. Quindi avere libertà di accedere a quanti più fornitori possibili, per scegliere la tecnologia migliore e per metterli in concorrenza sul prezzo, senza essere condizionati dalle conseguenze negative che le sue scelte potrebbero avere sull’azienda di componenti integrata nel gruppo.

Dal lato della holding proprietaria di entrambi, componenti e auto, c’è il doppio interesse a eliminare un’anomalia che costa, adesso in maggior misura, sul piano operativo e su quello patrimoniale. Altri l’han fatto: è uno spin-off della Nissan la Calsonic Kansel, proprietà del gruppo di private equity KKR che ha comperato Marelli. Se l’operazione ha effetti positivi per sia per Marelli sia per FCA, ostacolarla non può che avere effetti negativi per il Paese. Pessima idea quindi suggerire a un governo, che tra l’altro non ha bisogno di sollecitazioni interventiste, di azionare il golden power tecnologico. Si rivelerebbe non d’oro ma di piombo: quando vivace è lo sviluppo tecnologico, chiudersi significa inaridirsi.

Altra cosa è chiedersi se questo era l’unico modo di realizzare la separazione, se la stessa operazione non poteva farsi a parti invertite, da un gruppo finanziario italiano che acquista prima Marelli e poi lo spin-off della Nissan. Certo che se si scorre l‘elenco di aziende italiane comperate da aziende estere, da Pirelli a Italcementi, da Bulgari a Loro Piana, per finire alla recentissima Guzzini, qualche domanda è lecito porsela. Interpretare questi fatti come “centralità della finanza rispetto all’economia”, e demonizzarla come manifestazione della “crisi del capitalismo”, anzi del “turbocapitalismo”, come scrive Graziano del Rio (la Repubblica 23 Ottobre 2018), è a modo suo una spiegazione: infatti se questa fosse l’ideologia prevalente, perché mai gli italiani dovrebbero confidare i loro risparmi a istituzioni finanziarie se queste fanno parte di un mondo che egli giudica “a fine corsa”?

E’ invece proprio “la finanza” che consente a chi ha solo il suo capitale umano di diventare ricco; che facilita il passaggio generazionale, prospetta orizzonti più ampi, garantisce il sostegno per raggiungerli. E’ lì, all’articolato sistema di finanziamento delle imprese, che bisogna guardare per capire perché sono più aziende straniere a comprare aziende italiane, che il contrario.
Quanto a Marelli, entrare nel mondo della finanza imprenditoriale del private equity e del venture capital, non avere né vincoli né ostacoli a muoversi nel mercato dei prodotti e delle tecnologie, rappresenta una grande opportunità. Che riesca a coglierla dipende da lei: dipende anche, e non poco, dal Paese.

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di Fulvio Coltorti – First Online, 26 ottobre 2018

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