Si dice «innovazione» e si pensa ai prodotti di lunghi anni di ricerche in laboratori tecnologici. Ma innovare vuol dire anche guardare le cose in modo nuovo, forzare i tabù culturali, sparigliare le carte.
L’innovazione che ha modificato in tutto il mondo il modo di produrre dapprima le automobili, e poi quasi tutti i beni di consumo durevoli, è stata di tipo organizzativo; mentre in Europa le grandi fabbriche di automobili cercavano di battere la microconflittualità ricorrendo massicciamente all’auto-mozione, il Giappone adottava il toyotismo, basato sulla riprogettazione dei rapporti, interni di stabilimento ed esteri coi fornitori. E ha ridistribuito le quote di mercato e cambiato il modo di produrre automobili.
Certo, un’innovazione concepibile solo in un contesto culturale e sociale affatto diverso dai nostri. Ma neppure in Europa son mancate idee rivoluzionarie di questo genere. Tre esempi: privatizzazioni, alta velocità, minitel. Tre esempi a portata di mano, in ambienti economicamente e culturalmente prossimi: tre occasioni che abbiamo regolarmente perduto.
Le privatizzazioni hanno interrotto il declino dell’industria britannica, soffocata da rapporti sindacali sclerotizzati: hanno rotto il tabù che fosse necessario possedere per governare, modificato il rapporto tra Stato e cittadini, creato una nuova mentalità di investitori, di utenti, di imprenditori. Nessuna nuova tecnologia, né giganteschi investimenti, solo una vecchia ricetta, che la concorrenza fa bene ai mercati, applicata vincendo le paure di chi non vuole cambiare. Invece da noi ancora oggi, dopo una dozzina d’anni si passa una legge sulle privatizzazioni che lascia al ministro del Tesoro poteri enormi, arbitrari ed illimitati nel tempo. Continuando a dare spazio a vecchi pregiudizi, di cui si ritrova traccia perfino in una recente intervista di Pietro Larizza a «La Stampa» dove, accanto a dichiarazioni assolutamente corrette (non doversi privatizzare creando monopoli verticali tra produttori di beni e fornitori di servizi), rispuntano il mito populista di voler affidare compiti di gestione all’azionariato popolare, o quello secondo cui la vendita degli autogrill a un investitore straniero rovinerebbe la nostra agricoltura. Come se la libera circolazione dei beni e dei capitali in Europa non fosse legge dello Stato!
Analogo discorso per l’alta velocità: tecnologie note, che disponibili avrebbero dovuto essere anche per noi (dove tra l’altro c’è un’azienda di Stato che opera in regime di semi-monopolio), hanno prodotto una rivoluzione: modificato il modo di considerare le distanze, ridisegnato la geografia economica; rilanciato un’industria con sbocchi in tutto il mondo.
Da noi, sullo stentato percorso del provvedimento legislativo che dovrebbe finalmente dare il via alle opere, sono stati frapposti ancora pochi giorni fa alle Camere nuovi ostacoli sotto forma di commissioni ambientali, consultazioni regionali e via dicendo. Parlamentari meridionali e sardi hanno votato in difformità dalle indicazioni di partito, opponendo il miserevole stato dei trasporti su rotaia in quelle regioni, quasi che la colpa non fosse di una politica generale dei trasporti, e di una prassi sindacale interessata all’esistente.
Caso Minitel: costruito su una tecnologia assai poco innovativa li terminali minitel precedono l’esplosione del personal computer), ma su una strategia commerciale assai aggressiva (furono dati gratuitamente alcuni milioni di pezzi), il minitel è diventato un fenomeno sociologico. Che però dà lavoro a 25.000 aziende fornitrici di informazioni, con 350.000 persone: più che Renault, Peugeot e loro fornitori insieme. Nonostante le sollecitazioni a copiare il modello d’Oltralpe, esitazione, timidezze e insufficiente massa critica dell’esperimento impedirono il crearsi da noi di questa industria.
Oggi ci aspetta un nuovo appuntamento, le cosiddette autostrade informatiche, un settore al crocevia di informatica, servizi telematici, intrattenimento. L’ostacolo ancora una volta non è tecnologico, e neppure economico (anche se gli investimenti sono rilevanti); ma i vincoli normativi, la protezione di interessi, la politica in senso lato. Le dispute sui modi di privatizzare la Stet, e quelle sul l’assetto da dare al sistema televisivo rischiano di bloccare, con meccanismi analoghi ai precedenti, lo sviluppo di un settore fondi mentale per il nostro futuro di nazione industriale.
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agosto 20, 1994