Per mesi i lavori della Bicamerale sono stati bloccati dallo scontro sulla giustizia. La battaglia per la legalità annega il paese in un torrente di polemiche che non trova soluzione né a Milano né a Roma, né a Palermo. E’ la croce dolorosa dell’irrisolta transizione italiana.
Vicende apparentemente slegate stanno invece tutte ben piantate in questo Golgota. Domani Di Pietro affronta il voto degli elettori del Mugello; giovedì il Governo ha affrontato quello della Camera sulla soluzione della crisi bancaria siciliana. Il vota in Toscana è divenuto una sorta di improprio timbro politico su Mani Pulite; quello alla Camera è stato invece l’avallo alla chiusura necessitata dell’ennesimo episodio di malagestione certo, di malversazione probabilmente.
Entrambi i voti hanno a che fare con la moralità pubblica, e il loro succedersi a breve scadenza li rende emblematici delle due vie che ci vengono alternativamente proposte per affermare la legalità: la dura spada della giustizia penale l’una, il grigio pragmatismo della necessità l’altra. Nessuna delle due vie configura una soluzione istituzionale al problema. L’una persegue a parole il massimo del rigore, nei fatti una pericolosa traduzione politica dei meriti togati; l’altra il minimo dei danni per superiori esigenze di governo.
Soluzioni vere sono invece quelle che suggerisce il rapporto finale che Gustavo Minervini, presidente della “Commissione di studio per contrastare i fenomeni di corruzione”, ha presentato al Governo. Resa pubblica il 24 ottobre, la relazione avanza 18 proposte concrete, che fanno giustizia del 90% dei luoghi comuni che alimentano il dibattito sulla legalità. Si tratta di soluzioni figlie di una concezione liberale delle istituzioni, di una graduale revisione in senso efficientista della pubblica amministrazione, dei suoi obiettivi procedure e controlli, sulla strada intrapresa dalle leggi Bassanini. L’esatto opposto di quel mix penal-populista stigmatizzato alla proposta 17: “va evitata la via errata ed inutile di una legge generale anti-corruzione, incentrata su misure repressive nei confronti delle persone, avanzata dalle proposte di legge volte all’istituzione di un Garante della legalità”: la strada su cui purtroppo pare inoltrarsi il lavoro parallelo (come spesso avviene in Italia) dell’analoga Commissione istituita alla Camera, relatore l’on. Elio Veltri. Al contrario la relazione Minervini avanza rimedi che stanno più nei regolamenti amministrativi che nelle leggi, tanto meno nelle leggi penali.
I fenomeni di corruzione, riconosce il rapporto, hanno cause molteplici: non estranea ad esse un’imprenditoria privata che non rifiutava l’intervento pubblico purché fosse più di sostegno che di controllo. Ma il brodo di coltura della corruzione è e resta la pervasività e l’inefficienza della pubblica amministrazione. Non a caso tra le proposte più significative di Minervini ci sono quelle volte a diminuire l’intermediazione pubblica. “Eliminare i procedimenti amministrativi che distorcono la concorrenza” si legge al punto 7; mentre i punti da 14 a 16 avanzano preziosi suggerimenti volti a rendere più rapide e trasparenti le procedure di privatizzazione.
Certo, affermare che la legalità non è di destra o di sinistra, ma discende da regole nuove condivise, è meno spettacolare. Battersi pei l’elezione in Parlamento di pubblici ministeri può risultare conveniente; ma mentre ci dilaniamo per questo, anche la misura apparentemente più inoffensiva – l’innalzamento dei contributi dal 10% all’11,5% e poi al 19% per i lavoratori cosiddetti parasubordinati, disposto per superiori esigenze di riequilibrio dei conti Inps – anche questa misura accresce di fatto, nel silenzio, il lavoro nero, e dunque gli illeciti fiscali ed amministrativi ad esso connessi.
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novembre 8, 1997