Indipendente. Di sinistra.
Luigi Spaventa politico.

settembre 27, 2013


Pubblicato In: Convegni, Libri


”Finalmente! Erano cinquant’anni che aspettavamo!” E’ un Luigi Spaventa euforico a gridarlo, abbracciando gli amici che gli capitano a tiro in Piazza Santi Apostoli, la sera del 22 Aprile 1996. In quel grido, la sua passione politica; in quel plurale, la sua collocazione politica. Collocazione, non appartenenza: non è mai stato iscritto al PCI.

Eravamo in molti, in molte città d’Italia, quella sera, a festeggiare. Ricordo anch’io l’emozione nel riconoscere, tra quanti si assiepavano sotto il palco di piazza Carignano a Torino, le facce di coloro che per tanti anni avevano aspettato, con fiducia incrollabile nel “sole ingannatore”. Per tutti era un momento storico: finiva l’anomalia italiana, quella di un grande Paese dell’occidente con il più grande partito comunista. Il problema democratico di non escludere dal governo del Paese un terzo degli elettori, e il problema politico di ricondurre il rapporto maggioranza opposizione nelle forme delle democrazie occidentali, trovavano alfine soluzione. Si concludeva un percorso lungo e tortuoso, di errori e tragedie: ciascuno guardava, con le proprie diverse speranze, a quello che iniziava. Questa storia si intreccia con quella di Luigi Spaventa; nei trent’anni precedenti il 1996 con il suo impegno diretto, in quelli successivi con la sua autorevolezza, sempre con la sua passione. Parlamentare o ministro, economista o editorialista, banchiere o regolatore, discutendo o ascoltando musica, forse perfino in montagna, la politica, come professione e come attività intellettuale, percorre e innerva tutta la vita di Luigi Spaventa. E nella vita politica italiana Luigi Spaventa ha avuto un ruolo importante, ancor più di quanto gli venga generalmente riconosciuto.

Nel percorso “dal PCI al socialismo europeo”, per citare, non a caso, il titolo che Giorgio Napolitano ha scelto per la propria autobiografia, Spaventa ha contribuito come nessun altro a liberare la sinistra italiana dalle idées données, a darle gli strumenti concettuali della moderna economia di mercato, a legittimarne l’evoluzione – dalla curva di Phillips a quella di Laffer, se così si può dire. In tempi più recenti a fornirle argomenti per un’opposizione senza cedimenti al populismo girotondino. C’era la classe dirigente del Paese, l’8 Gennaio 2012 a San Lorenzo fuori le mura, al funerale di Luigi Spaventa: rendevano omaggio all’intellettuale e al politico che aveva familiarizzato il PCI e la sinistra con il liberalismo. Nessuno ha contribuito come lui a quel risultato. Non i tanti che per quello scopo hanno speso energie e impegno. E neppure gli “indipendenti di sinistra” che il PCI fece eleggere alla Camera all’epoca del compromesso storico: eletto insieme a loro, la sua posizione e il suo percorso politico ne sono del tutto diversi e distinti. Il PCI resta l’asse fondamentale, ma in Spaventa il rapporto con il partito è sempre di indipendenza. Indipendente “e” di sinistra.

Nel 1975 si tiene a Roma il XIV congresso del PCI: la tesi di Enrico Berlinguer “Unità del popolo per salvare l’Italia” apre al compromesso storico. Il Congresso nomina Giorgio Napolitano responsabile per le attività economiche e alle relazioni sindacali. Spaventa frequenta l’IRES di Trentin e Amato, il Cespe di Giorgio Amendola, dove Napolitano lo conobbe. Spaventa dal 1974 scrive per il Corriere della Sera, nel 1975 ne diventa l’editorialista economico (21 articoli in un anno). Quando per le elezioni del 20 Giugno 1976 il PCI decide di aumentare il numero dei candidati presi da quella che poi si sarebbe chiamata “società civile”, Napolitano propone il suo nome in Direzione. Spaventa è a Venezia quando alla sera lo raggiuge la telefonata con cui gli comunica che la Direzione ha accettato di metterlo in lista: tempo fino al mattino dopo per rispondere.
L’idea di proporre a personalità non comuniste di candidarsi da indipendenti, collegati coi candidati del PCI, l’aveva già avuta Luigi Longo, in vista delle elezioni del 1968, dimostrando così, chiosa Giorgio Napolitano, di avere “più inventiva politica di quanto comunemente si ritenesse” . Un gruppo Sinistra indipendente aveva avuto origine da un appello di Parri del dicembre 672; formato da due diversi tronconi, i catto-comunisti (Raniero la Valle, Guzzini, Ossicini) e i “laici” seguaci di Parri, ebbe i numeri per formare al Senato un Gruppo Parlamentare autonomo. Alla Camera gli indipendenti di sinistra confluiscono nel Gruppo Misto: nella VII legislatura, con Spinelli presidente e Spaventa segretario; nella VIII, con presidente Rodotà, vicepresidenti Bassanini e Minervini, come sottogruppo autonomo. In entrambe le legislature Spaventa fa parte della VI Commissione Finanze e Tesoro, e, nell’VIII, anche della commissione parlamentare per il parere al Governo sulle norme delegate relative alla riforma tributaria.
Aldo Moro viene rapito e la sua scorta uccisa il giorno del primo dibattito sulla fiducia al nuovo governo Andreotti IV (16 marzo 1978). A Berlinguer viene a mancare un interlocutore fondamentale della sua politica: è la fine dell’esperienza della solidarietà democratica. “Il PCI si sentiva esposto a un pericoloso logoramento. […] i limiti e le difficoltà dell’azione di Governo fecero il resto. […] L’ultimo tentativo nel quale personalmente mi impegnai- è Giorgio Napolitano a ricordarlo- fu quello della definizione di un piano triennale di sviluppo con il Ministro del Tesoro Filippo Maria Pandolfi”. Era stato Spaventa a parlare di “programma triennale”, alcuni giorni prima, in una cena al Buco con Pandolfi e con Luciano Barca, che annota.
E’ Spaventa, a porre il problema del che fare nel momento in cui governo e maggioranza non avevano più il collante drammatico da cui il governo è di fatto nato: il collante del rapimento di Moro. […] I cambiamenti in atto sono enormi e non solo la strumentazione economica del governo e dello Stato è in tremendo ritardo, ma tutta la pubblica amministrazione è inadeguata perfino rispetto ai compiti più elementari. […]Pandolfi conviene con convinzione sull’esigenza posta da Spaventa [avvertendo che]un simile disegno non potrà non affrontare il tema del mercato del lavoro e delle relazioni industriali.

E’ alla luce di questa situazione politica che va letta la vicenda dell’adesione dell’Italia allo SME. Vi era stato un vertice a Bruxelles, dove era stato raggiunto il primo accordo cui l’Italia aveva aderito. Diffuse le obbiezioni: il Governatore Baffi, Mario Monti, perfino il Ministro del Commercio Estero Rinaldo Ossola. Nella decisione del PCI di votare contro entrarono anche considerazioni politiche: essa non fu decisiva per far scivolare la situazione verso la crisi di governo, al contrario, come scrive Giorgio Napolitano , fu “l’orientamento già maturato a ritirare la fiducia al governo, il deterioramento già prodottosi nei rapporti politici, a indurci a un voto contrario anziché di astensione”, che sarebbe stato coerente con il suo intervento in aula. Quando il Presidente del Consiglio Andreotti viene in Aula a riferire degli accordi, l’intervento di Spaventa, il 12 Dicembre 1978, è contro l’adesione allo SME. Più delle proposte di legge, dei tanti interventi in Commissione e in Aula, è probabilmente il documento più importante del suo lavoro da parlamentare. E’ interessante rileggerlo, quel lungo intervento, non per rilevare la contraddizione con le posizioni di convinto sostenitore dell’euro che avrebbe preso in seguito, ma al contrario per rilevare l’attualità delle sue considerazioni. Il punto di partenza è il disavanzo delle partite correnti, un dato strutturale “che non può essere ridotto con misure di cambio ma con movimenti di redditi e recessione”. Il nostro Paese presenta differenze di condizioni iniziali rispetto agli altri Pesi europei, e “ il cambio è la più endogena delle variabili”. E’ lo stesso argomento che Spaventa aveva sollevato nel suo intervento a un convegno promosso dal Cespe nel marzo 1976. E’ quello che userà per spiegare la crisi spagnola del 2008, in un paper con Francesco Giavazzi. Le obbiezioni di allora sono diventate, 35 anni dopo, spiegazioni delle “imperfezioni tecniche” dell’euro, e indicazioni per il loro superamento: i vantaggi per la Germania, i pericoli di escludere l’Inghilterra, e per noi il vincolo estero, un po’ di flessibilità, qualche aiuto comunitario. Compresa la necessità di fare precedere l’unione di bilancio all’unione monetaria.
Nel contesto politico del compromesso storico e dell’eurocomunismo, per il PCI era essenziale non essere percepito come antieuropeista, confutare chi sosteneva che “l’europeismo dei comunisti deve ancora tradursi in atti pratici”. Se Napolitano rassicurava che “la nostra scelta non è una crisi di Governo”, ci andava qualcuno che polemizzasse con chi nella DC premeva per l’ingresso immediato in funzione anticomunista: chi meglio di Luigi poteva mettere nel mirino Beniamino Andreatta “un mio collega che siede nell’altro ramo del Parlamento, tanto brillante quanto drastico nell’espressione dei suoi pareri, quanto volubile nell’incalzare delle ipotesi e degli sviluppi”?
A chi riteneva che la valutazione politica contingente dovesse essere anteposta alla valutazione economica, Spaventa contrapponeva
“un senso più chiaro e più nobile in cui il problema può essere definito politico: si ritiene che l’edificazione del sistema monetario rappresenti il primo sussulto dell’idea europea dopo anni di letargo; l’occasione non può e non deve essere persa; pur di rafforzare la Comunità, occorre sopportare anche i sacrifici che derivano dalle imperfezioni tecniche del sistema. Questo è un argomento che occorre valutare con attenzione, perché, come ripeto, è il più serio e il più nobile che ci venga offerto. Obiettare a questo argomento è pericoloso – si badi – perché si rischia di essere marchiati di antieuropeismo, si rischia di essere marchiati come nazionalisti, come retrogradi, perché esiste anche una sorta di terrorismo ideologico europeistico. Ma obiettare si deve. Sono, quelle del sistema monetario, imperfezioni tecniche o non piuttosto i difetti di una creatura nata politicamente male e politicamente malformata ? Non derivano, queste imperfezioni, dagli egoismi nazionali degli altri paesi più forti della Comunità ? Perché mai, altrimenti, i costi che ci si chiede di sopportare dovrebbero essere solo i nostri, mentre non paiono esservi costi per i paesi più forti ? Queste domande io vorrei porre agli amici europeisti, insieme a tante altre.”.
Helmut Schmidt aveva chiesto, tramite il dirigente di Amburgo della Spd Horst Schmidt, di non dare alla posizione del PCI un significato di sfiducia al governo, che avrebbe potuto provocare una crisi fatale alla nascita dello SME: e in effetti fu solo in mese dopo, a fine gennaio 79, che il PCI annunciò il ritiro dalla maggioranza.

L’eurocomunismo non aveva mai riscontrato i favori né dell’area di sinistra del PCI, né nell’ala andreottiana della DC. Per il leader democristiano “il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista.”
Fallito il tentativo di riproporre il compromesso storico alla nuova DC di Flaminio Piccoli, con quella che Macaluso definisce la seconda svolta di Salerno, il 28 novembre 1980, Berlinguer annuncia di voler abbandonare quella linea per abbracciare quella dell’«alternativa democratica». L’obiettivo diventa quello di ricercare governi di solidarietà nazionale che escludano la DC.
Nel PCI arroccato di Berlinguer davanti alle porte di Mirafiori, Spaventa non trova più il suo spazio. Alle successive elezioni del 26 Giugno 1983 non si candida più. Si racconta che fu lui a suggerire di candidare invece Filippo Cavazzuti al Senato e Vincenzo Visco alla Camera: “Ci vogliono due professori di scienza delle finanze per sostituire un economista” avrebbe detto affettuosamente. Provocando l’affettuosa replica degli interessati: due sono necessari per rimediare agli sbagli di uno.

Nel 1988 viene nominato dal Governo De Mita Presidente del Comitato scientifico-consultivo sulla gestione del debito pubblico istituito dal Ministro del Tesoro (1988-1989), Ministro del Tesoro Giuliano Amato. Sono anni difficili, sul fronte della lira si combatte quotidianamente la battagli tra Tesoro Banca d’Italia da un lato e speculazione dall’altro. Vi porta il suo rigore logico, la sua fulminea prontezza, la sua capacità di entusiasmo. Ne resta una curiosa testimonianza.
“Professor Spaventa, perché l’Italia emette BTP o BOT? Per ottenere lire da spendere, o per ridurre le riserve nel sistema bancario, e quindi evitare che il tasso interbancario vada a zero?” Per porre questa domanda due americani, Warren Mosler e Tom Schulke, del fondo III Offshore Advisors, sono venuti apposta dall’ America: c’è un mucchio di soldi da fare a comperare BTP che rendono il 14% indebitandosi in Lire al 12%, se uno avesse avuto la certezza che lo Stato italiano non avrebbe fatto default. Spaventa sembra preso di sorpresa, impiega un minuto per pensarci e poi rispose: “no, il tasso interbancario della lira scenderebbe a 0.5% perché paghiamo 0.5% sulle riserve bancarie tenute presso di noi”. Stupore e ammirazione degli americani: risposta perfetta, in Via XX Settembre c’è un responsabile del debito pubblico che comprende perfettamente come funziona il moderno sistema monetario! Dopo un poco Spaventa ha come un balzo sulla sedia: ” Sì! … e loro (il Fondo Monetario) ci costringono a comportarci in modo prociclico!”. Una settimana più tardi un comunicato del Ministero delle Finanze a Roma annuncia che non ci sarebbe stata nessuna misura straordinaria per la crisi di Lira e BTP: effettueremo tutti i pagamenti dovuti dal Tesoro senza problemi.
Il fondo diventò il maggior detentore di Lire italiane e di BTP sul mercato: e Mosler ebbe la conferma che gli Stati non sono mai insolventi, quando hanno tassi di cambio fluttuanti e una valuta non convertibile.

Il 22 Aprile 1993, a conclusione di un aspro dibattito alla Camera, Giuliano Amato si dimette. Scalfaro, che in precedenza aveva sondato la possibilità di incaricare Napolitano, conferisce l’incarico a Ciampi: è la prima volta nella storia dello Stato italiano che un non parlamentare viene scelto per quella carica. Ciampi dichiara di volersi avvalere dell’articolo 92, secondo comma, della Costituzione per scegliere i ministri. Uno di essi è Spaventa. Per il PDS, a cui inizialmente non era neppure stato chiesto se intendesse essere parte del Governo con propri esponenti, entreranno nel Governo Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco; per i Verdi ci sarà Francesco Rutelli. Il 28 Aprile il Governo giura, ma, prima che possa presentarsi per la fiducia, il 29 Aprile la Camera nega l’autorizzazione a procedere contro Craxi. Il PDS, con una “decisione inesplicabile in termini di logica e di buon senso, e riconducibile solo a un antico istinto di opposizione, a una persistente ritrosia ad assumersi responsabilità di governo” ritira i suoi ministri, e si astiene sulla fiducia a Ciampi. Non si dimette Spaventa, che era stato chiamato da Ciampi direttamente: nessuno gli chiede di farlo, nessuno si meraviglia. Ma nessuno dubita che Spaventa, in quel Governo, “sia” la sinistra.

I resoconti Parlamentari rendono il clima di una situazione economica difficile, ma di rapporti politicamente molto civili. La solita dialettica tra deputati a proporre emendamenti di spesa, e Ministro delle Finanze a dare parere contrario. Quando deve darlo conforme, osserva che vi sono casi in cui “il vocabolo gradimento dovrebbe essere arricchito dell’aggettivo rassegnato”. Perché
“la stretta ci costringe ad essere e a restare per qualche tempo ragionieri. Incidentalmente vorrei dire che non comprendo perché il sostantivo e l’aggettivo di questa onorata professione siano stati così spesso in quest’aula usati a mo’ di peggiorativo. Forse
gli onorevoli deputati riceveranno una protesta dall’ordine.”

La battuta ad allentare la tensione
Troppo, dicono alcuni, troppo poco, dicono altri: dai banchi radicali ci viene la massima lezione di rigore finanziario, scuola bocconiana.
O ancora, come in questo scambio
Devo esprimere però, onorevole Piro, una mite meraviglia per la sua censura su questi
buchi di bilancio; ella sembra esortarci a cose che mi sorprendono. Non monetarista lei, non monetarista io, vorrà concordare che sarebbe improprio e dannoso inseguire il ciclo. Provarono a farlo negli Stati Uniti negli anni trenta, prima che arrivasse Roosevelt: tassare di più, perché si incassa di meno, perché vi è depressione; ma le conseguenze non furono entusiasmanti. FRANCO PIRO. Meglio Roosevelt, non c’è dubbio! LUIGI SPAVENTA Mi sembrava che mi avesse esortato a Hoover!
Questi appunti sullo Spaventa politico sono l’occasione per sottrarre, dai fascicoli degli interventi parlamentari, alcuni interventi ancora attuali. Ad una futura antologia degli scritti di Spaventa se ne propongono due, entrambi tratti dalla discussione sulla legge finanziaria del dicembre 1993. Il primo riguarda i vincoli esterni.
A livello politico, mi pare, e di opinione pubblica vi è oggi una consapevolezza che prima non esisteva circa la gravità dei problemi finanziari; vi è consapevolezza a livello politico e di opinione pubblica di quanto costi il ritardo nella correzione della situazione insostenibile che si è manifestata negli anni scorsi. E ancor più credo ci si renda ormai conto di quanto lo squilibrio di finanza pubblica abbia avvilito il dibattito politico, in due modi: in primo luogo, consentendo che gli interessi legittimi, ma contrapposti, si componessero a spese del bilancio pubblico, invece di manifestarsi nella dialettica politica, perché in questi termini e in questo senso di dialettica politica nel paese ve ne è stata ben poca; in secondo luogo, obbligando il Parlamento, come oggi è obbligato, a occuparsi non di politica economica […]ma inevitabilmente di ragioneria pubblica; ad occuparsi dunque non di come è meglio dare, a chi e per che cosa poter dare, ma ad occuparsi solo da anni e ancora per anni, come ha indicato l’onorevole Tabacci, di come e a chi togliere. […] Sono una costrizione ed una necessità che non ci vengono imposte dall’esterno. Perché continuiamo a dire che ce le impongono il Fondo monetario, la Comunità economica europea e quant’altro? Questa costrizione e questa necessità ci vengono imposte dai rischi, tutti nostri, che deriverebbero da una continuazione delle tendenze passate. Quali le implicazioni di questa situazione e quali le prospettive? […]Un alto debito accumulato provoca una conseguenza che fu tracciata magistralmente dal primo Keynes ne la Riforma monetaria: una redistribuzione dai redditi produttivi e dal consumo pubblico e produttivo anch’esso ai redditi da risparmio finanziario. Un tempo si sarebbe detto dal ceto produttivo ai rentiers, ma oggi siamo tutti un po’ rentiers e alcuni di noi non sono più ceto produttivo. Quanta debba essere tale redistribuzione, dipende crucialmente dalla rapidità con cui si arresta la crescita del debito e ancora più crucialmente dal costo del debito.

Il secondo tratta dell’Agenzia per il Mezzogiorno, una questione spinosa di cui avrebbe poi dovuto occuparsi direttamente.
Vengo ora alla questione del Mezzogiorno e delle aree depresse. […] Non intendo parlare del passato, pur se l’eredità è pesante. È corretta l’analisi dell’onorevole Vito Napoli sulla distribuzione effettiva della spesa che, solo apparentemente, si è concentrata al sud con l’intervento straordinario, perché — come è oramai dimostrato per tabulas e per numeri — quando si consideri anche l’intervento ordinario, si potrà constatare che il Mezzogiorno non è stato beneficiario di risorse più di altre regioni del paese o addirittura — come è stato sostenuto dal professor De Meo — è stato meno beneficiario di altre regioni del paese. Restano però aperti ancora due problemi sui quali occorre meditare anche per il futuro. Il primo: la spesa sarà stata insufficiente, sarà stata certamente minore di quella richiesta, tuttavia, senza far processi ma per il migliore agire nel futuro, chiediamoci se con la stessa spesa non si sarebbe potuto avere un miglior risultato. Credo sia nostro dovere chiedercelo perché, altrimenti, ci ritroveremo con i problemi incontrati nel passato. La seconda questione consiste nel disordine finanziario organizzativo, lasciato in eredità dall’intervento straordinario e dalla sua fine. Non farò riferimento a tale disordine organizzativo, mi soffermerò invece sul disordine finanziario. […]i siamo trovati di fronte a taluni conti rispetto ai quali non sappiamo quanti di essi debbano essere pagati. […] Perfino nel caso delle agevolazioni industriali si va scoprendo che in moltissimi casi vi è stata un’erogazione di anticipi e poi più nulla. [Si] tenga presente, [che …] il Mezzogiorno registra il massimo tasso di natalità ed anche di mortalità delle imprese; ciò denota una certa patologia.

Passano 15 anni. C’è un nono referendum nel pacchetto radicale votato il 18 Aprile 1993: riguarda l’abolizione dell’intervento straordinario su Mezzogiorno: ma è vinto senza bisogno di contarsi, ci pensa il Ministro Beniamino Andreatta a cancellarlo con un drastico provvedimento. Toccherà a Spaventa che gli succede trovare soluzione ai giganteschi problemi che sorgono. Ci sono le pressioni del personale dell’Agenzia del Mezzogiorno che sarebbe stato licenziato, seppur con congrue liquidazioni. Ci sono le difficoltà a riassorbirli nella Pubblica Amministrazione, con stipendi doppi di quelli dei colleghi. Ci sono le pressioni dell’INA: la ex Cassa del Mezzogiorno era considerata “un posto a rischio” , e quindi la società di assicurazione avrebbe dovuto sborsare centinaia di miliardi per liquidare un sinistro per il quale aveva percepito negli anni lauti premi dallo Stato.. Ci sono gli impegni verso le imprese: 16.000 pratiche per 12.000 miliardi di erogazioni, più una valanga di altre 18.000 domande non ancora approvate dall’Agenzia, ma relativi a investimenti per i quali gli imprenditori hanno maturato un diritto oggettivo all’agevolazione, in base alle leggi vigenti. Ma quello che fa andare su tutte le furie Spaventa, è quando la sua decisione di sostituire il vecchio dipartimento del Mezzogiorno con un servizio per le politiche di coesione e uno per la contrattazione e gli accordi di programma, viene decodificato come mezzo per assegnare un servizio a un dirigente dell’ex dipartimenti di area socialista, Ugo De Dominicis, e il secondo un dirigente democristiano, Bruno Bianconi. Si immagina pure quale sarà stata la sua reazione e sentire il suo sottosegretario Stefano De Luca segnalare che al suo ministero vi sarebbe un vuoto di organico di 18.000 persone. La vicenda dell’Agenzia del Mezzogiorno non si chiude con la fine del Governo Ciampi, ci saranno strascichi di cui si dovranno occupare i Governi successivi: ma è a Spaventa che viene giustamente riconosciuto il merito di avere liquidato uno degli istituti che, dopo i fasti iniziali, era presto diventato sinonimo di sprechi e corruzione, esempio paradigmatico di come finisca l’intervento diretto dello stato in economia. Anche la privatizzazione dell’INA verrà formalmente portata a termine dal futuro Governo, ma anche di questo il merito va a Spaventa.

Pare sia stato Bob Lasagna, il mago della comunicazione ingaggiato da Berlusconi per dirigere la sua campagna elettorale a suggerire a Berlusconi che uno come lui non poteva scendere sotto il collegio 1, e siccome a Milano 1 c’era Bossi, non restava che Roma 1. “Mi candiderò solo se Berlusconi sceglierà Roma 1” si sarebbe lasciato andare a dire Spaventa in un salotto amico. Battere Berlusconi in uno scontro diretto nel suo collegio è la speranza a cui si aggrappavano i partiti del centrosinistra, anche perché per Roberto Maroni, allora numero due della Lega, un Berlusconi sconfitto all’uninominale sarebbe improponibile per la presidenza del consiglio. I sondaggi rivelano che la “gioiosa macchina da guerra” stava perdendo colpi, la vittoria di Berlusconi sembra sempre più probabile. La scommessa buttata lì da Spaventa è preceduta, secondo alcuni nello stesso salotto, da ben più ponderate discussioni e scommesse. All’inizio della campagna Berlusconi pare in difficoltà, viene cortesemente cacciato dall’Ospedale di Trastevere e dal Bambin Gesù. Spaventa partito in ritardo, e con pochissimi mezzi, gira per i quartieri accompagnato da Nanny Loi e Nanni Moretti. Il 10 Marzo i sondaggi dànno a Spaventa 8 punti di vantaggio. A quel momento Berlusconi cambia tattica e invece di cercare di battere Spaventa direttamente, punta a levare voti a Michelini, terzo candidato per il Patto Segni, con l’argomento del voto utile: Berlusconi, unico baluardo contro la scristianizzazione delle Città Eterna. Quando i sondaggi li dànno alla pari arriva la segnalazione, da parte della Ragioneria Generale, di un buco di bilancio. “Questo governo dei tecnici, incalza Forza Italia, è uguale a quelli del passato, sempre con la stangata dietro l’angolo”. Il comizio di chiusura Spaventa lo tiene venerdì 25 marzo 1994 al cinema Colosseo. Perfino il folto gruppo di economisti del servizio studi della Banca d’Italia é annichilito dalla durezza con la quale Spaventa – ricordando la “sua” contabilità del debito – spiega che, lungi dall’aspettarsi la riduzione delle tasse per tutti promessa da Berlusconi, si va incontro a un lungo periodo di austerità, basata su forti e persistenti avanzi primari di finanza pubblica, e che quindi l’aggiustamento dovrà avvenire anche dal lato delle imposte. Finisce con Berlusconi al 46,3%, Spaventa al 40,1%, Michelini al 12,8%. Spaventa che, per sua scelta, non aveva voluto essere candidato anche nella parte proporzionale, non entra in Parlamento.

Il 13 febbraio 1995 Prodi lancia il movimento dell’Ulivo, insieme ai programmi prepara la squadra di Governo. Il 23 Luglio, Luciano Barca annota:
Prodi intanto ha nominato sette superministri ombra: il più a sinistra è il democristiano Zamagni, economista molto sensibile ai problemi sociali e non convertito al pensiero comune delle “pari opportunità”. All’Economia è stato chiamato Luigi Spaventa, uomo giusto, colto, ma purtroppo fermamente liberista (anche, per fortuna, nella difesa della concorrenza).
Di Spaventa ministro poi non si sente più parlare, né lo si trova tra candidati in Parlamento. Rispettava Prodi ma non credo ne condividesse le posizioni, anche in materia economica.
Politico, per la criticità politica della situazione in cui ebbe luogo, fu l’intervento di Spaventa sulla riforma della governance e delle competenze di Bankitalia. Il paper Astrid, redatto da un gruppo di lavoro da lui coordinato, fu in larga misura trasfuso nella riforma contenuta nella Legge sul Risparmio (Legge 28 dicembre 2005, n. 262), in particolare per quanto riguarda la procedura di nomina del Governatore e la durata in carica non più a tempo indedeterminato, la natura collegiale delle decisioni di vigilanza, l’attribuzione all’antitrust della tutela della concorrenza in materia bancaria.
Politici, per intelligenza e per passione, sono i colloqui privati, le relazioni personali che intrattenne fino a quell’estate a Salisburgo. Rimangono consegnati alla memoria e al rimpianto di chi ne fu parte.
”Il tempo è risorsa che non si recupera. Crediamo spesso di far politica e già stiamo facendo storia: l’occasione perduta di ieri riduce la scelta di oggi. Il tempo è la risorsa che più ciecamente è stata dissipata nella politica economica italiana. Nei due ultimi anni si dovevano rafforzare le fragili strutture della nostra economia, si doveva ordire la trama di una non caduca ripresa. Poco o nulla è stato fatto. [….] Quando si è giunti a questo punto è stolto chiedere all’economista, e sarebbe stolto da parte dell’economista offrire ricette miracolose. I nodi giunti al pettine sono così inestricabilmente aggrovigliati, che scioglierli è impossibile e occorre ormai tagliarli con una operazione che appartiene alla politica, richiede forza politica, necessità di consenso politico.”
Così inizia Luigi Spaventa il suo intervento al convegno del Cespe che si è ricordato. E’ il Marzo del 1976. Poche settimane dopo gli si sarebbe offerta l’occasione per dare, da politico, le soluzioni che “è stolto chiedere all’economista”. Per la “forza politica” contava sulle sue idee, per il “consenso politico” puntava sulla sinistra.
Indipendente. Di sinistra.

Capitolo 4 del libro
Luigi Spaventa economista politico
introduzione di Carlo Maria Pinardi
testi di Antonio Pedone, Marcello De Cecco, Ignazio Visco, Mario Draghi, Fabrizio Saccomanni, Maria Teresa Salvemini, Filippo Cavazzuti, Emilio Giannelli, Ciro Pietroluongo, Francesco Giavazzi, Marco Pagano, Salvatore Bragantini, Franco Debenedetti, Ferruccio de Bortoli, Massimo Giannini, Paolo Baratta, Alberto Giovannini, Vittorio Grilli, Marco Mazzucchelli, Pietro Reichlin, Giuliano Amato
Nino Aragno Editore, 2013

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