“Se i figli non vanno a scuola pene più severe ai genitori”. L’ha detto Giorgia Meloni a Caivano: e Claudio Cerasa ha replicato: ”Dacci oggi il nostro populismo quotidiano”.
Subito accontentato: il Consiglio dei Ministri sta preparando un provvedimento sul contrasto al disagio giovanile, in cui è prevista una pena fino a due anni di reclusione per i genitori che non mandano a scuola i figli.
Son oltre due secoli che si ragiona di delitti e di pene. Quando leggo di omicidi premeditati, perpetrati da chi poi non fa nulla per sfuggire alle proprie responsabilità, mi chiedo quale sentimento riesca a prevalere sulla certezza di passare in carcere quel che resta di vita. Certamente non c’è più nessuno (in Italia) che pensi che questo sentimento non prevarrebbe se il delitto prevedesse la pena di morte.
La relazione tra gravità del delitto compiuto ed entità della pena che esso comporta definisce una società. Ritenere che esista una relazione diretta tra numerosità del delitto e afflizione della pena è una fallacia populista, a cui ricorrono sovente i governi per guadagnarsi un facile ma inefficace consenso. E’ invece utile, e non solo nel caso dei macabri delitti da cui ho preso spunto, approfondire il rapporto tra la forza del sentimento che induce a compiere atti che infrangono la legge e la coscienza delle conseguenze che potrebbero convincerli a non farlo.
Nel contesto specifico in cui parlava la presidente, è probabile che ciò che prevale sul dovere di mandare i figli a scuola sia la perdita del ricavo per i loro “lavoretti”: é quindi doppiamente assurdo pensare di porvi rimedio infliggendo ai genitori un ulteriore costo. A far diventare razionale il mandare figli a scuola è solo la prospettiva di opportunità maggiori in numero e migliori in redditività per ragazzi che le scuole abbiano resi adatti a cogliere. E’ lo Stato che può creare queste opportunità, è nel non avervi provveduto che consiste il “fallimento dello Stato” di cui pure nella stessa occasione ha parlato la presidente.
Solo a Caivano? La presidente non ignora certo che i test Pisa ci confinano tra paesi OCSE a cui crediamo essere superiori per storia, cultura, ricchezza; il numero di studenti non in grado di comprendere e restituire un testo in italiano è imbarazzante. Eppure continuiamo a eliminare, se non il merito, la valutazione dal vocabolario scolastico. Periodicamente, torna l’idea di togliere i voti alle superiori (mentre sono stati già tolti alle elementari). I test Invalsi, se proprio non li si può eliminare, diventano privi di valore. Agli insegnanti è di fatto impedito fare progressione di carriera. Docenti o discenti, nel ministero dell’Istruzione e del Merito, il merito non li dovrà differenziare; per evitare tentazioni, non dovrà neppure essere misurato.
Mentre, per flop delle assunzioni, è vuota una cattedra su due.
A Giorgia Meloni avranno detto che Il rapporto scuole-genitori-ragazzi esibisce criticità non solo là dove la scuola è in concorrenza con il lavoro; e che, per certi aspetti, in Italia ci sono Caivani anche dove non è la mafia a procurar “lavoretti”. Magari questa criticità assume la forma del disinteresse: a ciò che la scuola insegna, a ciò che i ragazzi imparano o dovrebbero/potrebbero imparare, alle opportunità future, di studio o di lavoro. Genitori per cui mandare i figli a scuola è un dovere a cui adempiere e non qualcosa di cui interessarsi: perché quello è tutto per “il pezzo di carta” da ritirare alla fine.
E allora vien da chiedersi se il conflitto tra dovere e interesse non sia di sua natura paragonabile a quello tra il sentimento che muove la mano di chi compie un delitto e la coscienza della pena che sconterà. Problema sociale, più che aumentare il timore della pena, è lenire quell’odio; per la stessa ragione, più che punire i genitori, sarebbe aumentare il loro interesse.
E perché i genitori dovrebbero avere interesse a quel che succede a scuola? Non possiedono elementi che li guidino nella scelta della scuola, e se li avessero avrebbero difficoltà ad attuarla. E, se pur ci riuscissero, non avrebbero modo di intervenire su quello che succede in quei 12 anni: è colpa solo loro se l’unica cosa che finisce per contare è il pezzo di carta?
La soluzione c’è: invece di punire i genitori, premiare i maestri. Con Serena Sileoni ne scrivemmo estesamente sul Foglio del.16 marzo 2023.
Come per i genitori di Caivano è la prospettiva del futuro che avranno i ragazzi ciò che può indurli a mandarli a scuola anziché ad accettare i “lavoretti” offerti dalla mafia, così in tutto il Paese la possibilità di scegliere una scuola, e poi di interagire con gli insegnanti perché, la passiva aderenza all’obbligo di legge diventi l’interesse attivo a che ai ragazzi venga fornita l’istruzione che essi giudicano adatta al futuro che hanno immaginato per loro.
Come la soluzione del problema dei genitori di Caivano va ben oltre quello della passiva frequenza, e richiede allo Stato interventi sociali vasti e profondi, così a livello nazionale mobilitare l’interesse dei genitori per una scuola che produca non solo il pezzo di carta richiede dallo Stato un intervento profondo sulla struttura scolastica, sulla selezione del personale didattico, sul modo in cui il merito viene applicato e insegnato.
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