L’Unione e i consensi
I numeri sono capaci di sintesi brutali: i sondaggi che danno i Ds al 19,4% e la Margherita al 9,4% sovrastano quanti si affannano a distinguere tra i destinatari dei fischi di Mirafiori, a individuare gli orchestratori di quelli di Bologna, a scandalizzarsi per la forma della protesta dei rettori, a diluire nel tempo le assunzioni dei precari. I numeri che sintetizzano il calo di consensi dell’asse portante della maggioranza esigono una presa d’atto altrettanto sintetica: l’azione di governo sta consumando il consenso di chi ha votato centrosinistra.
Già durante la campagna elettorale, quel capitale di consenso aveva rischiato disperdersi. Aveva superato la prova, sia pur con margini risicati: tanta era la voglia di cambiare rispetto a un Governo che, pur forte di una maggioranza fortissima, aveva fortissimamente deluso; tanta era la fiducia in uomini nuovi, integri e capaci. Giunti al Governo, a dimostrare la possibilità di allargare i consensi, erano bastate iniziative legislative tutto sommato minori (il Bersani-Visco), e un Dpef di qualità. Di qualità e di grandi ambizioni, come qualcuno (Luigi Spaventa) aveva osservato. Sia come sia, quando si è trattato di tradurre i principi del Dpef in cifre e in lettere, qualcosa si è rotto: quella voglia di cambiare e quella fiducia non hanno resistito a una finanziaria.
Le finanziarie producono sempre scontento, chi ha motivo di essere soddisfatto – e neppure stavolta manca chi di motivi ne ha – non lo dice: ma é difficile ricordare una finanziaria che abbia prodotto un dissenso così generalizzato. Non lo fu neppure per quella storica di Amato, che era arrivata a toccare perfino i conti correnti. Allora c’era la consapevolezza della drammaticità del momento: chi le ha viste, ha ancora negli occhi le facce dei ministri Barucci e Reviglio mentre Giuliano Amato annuncia la svalutazione della lira. Invece Il Governo Prodi ha voluto drammatizzare la situazione, benché se non ce ne fosse chiara evidenza nei conti, né nella percezione generale sull’andamento dell’economia,. E così è parso che questo Governo abbia voluto far pagare agli italiani il conto della sua polemica con quello precedente, rincarando anzi la dose quanto più l’entità di un gettito tributario non previsto dava sostanza alle critiche a una finanziaria così dilatata: a costo di autoflagellarsi, come rilevava venerdì il Riformista, decidendo di mettere a carico dell’esercizio 2006 debiti – come quello dell’IVA sulle auto aziendali e quello di Ispa- che Bruxelles consente o addirittura consiglia di rateizzare.
Ma le critiche alla finanziaria – e penso alle critiche da sinistra o non pregiudizialmente ostili – sono troppo note perché sia necessario richiamarle dettagliatamente. Valga la sintesi: una crescente maggioranza di italiani mostra non solo di non credere che questa finanziaria sia “di risanamento e di sviluppo”, ma addirittura non ne percepisce la logica.
Di fronte a questa pericolosa criticità, i leader del centrosinistra mostrano di voler far proprio lo slogan di Gorge W. Bush “stay the course”. Fassino rettifica il “cambio di rotta” con “cambio di passo”. Per Rutelli , la fase 2 consiste in un’accelerazione. Verso dove, se Ds e Margherita insieme hanno già perso terreno dalle elezioni a oggi? Di questo passo, va in crisi anche il progetto del Partito Democratico, per cui i leader del centrosinistra ancora si stanno spendendo. Alla sintesi dei numeri deve seguire una sintesi politica: a causa delle sue contraddizioni interne, questo Governo perde identità. Non è possibile tenere insieme chi vuole le riforme e chi vi si oppone, chi vuole risanare Alitalia e chi vuole garantire le sigle sindacali che l’hanno ridotta dov’è; chi vuole premiare il merito e chi vuole assumere i precari; chi vuole licenziare almeno i dipendenti pubblici condannati per furto e chi li vuole garantiti a prescindere; chi ci vuole in Europa e chi segue il giustizialismo populista di Di Pietro. E non abbiamo neppure incominciato a parlare di pensioni, di scuola, di sanità, mentre incombe il referendum e la legge elettorale. E’ forse possibile tenere insieme queste contraddizioni in seno al Consiglio dei Ministri, giocare sulle parole e sui rinvii: ma così non si evita di apparire al Paese come uno specchio rotto, che riflette un’immagine divisa e incoerente, in cui ognuno vede solo il proprio interesse particolare e non riesce a discernere il disegno, l’obiettivo per cui valga la pena superarlo.
Romano Prodi. Tommaso Padoa Schioppa, Enrico Letta, Pierluigi Bersani – solo per dirne alcuni – li conosciamo da anni, e anche quando ne critichiamo i difetti, ne riconosciamo le capacità. Sono risorse che appaiono insostituibili: proprio per questo non devono essere messe al servizio di una missione impossibile, tenere insieme chi vuole riformare questo Paese e chi vuole mantenerlo com’è. Se rischiamo addirittura di avviarci, giorno dopo giorno, verso “una democrazia senza consenso” (Ilvo Diamanti, su la Repubblica di ieri), non basta più correggere un piano o accelerarne l’esecuzione: bisogna che questo Governo trovi un diverso equilibrio interno, per ripresentare al Paese la visione di dove lo vuol portare e della strada per arrivarci.
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dicembre 19, 2006