Il Tesoro vendendo la seconda tranche dell’Imi, ne ha ceduto il controllo a San Paolo, Cariplo e Monte dei Paschi. Si delinea così un superpolo bancario le cui forze potrebbero rendere meno univoco il sistema del credito. Però la maggioranza di tutte e tre le banche appartiene alle rispettive Fondazioni, i cui vertici sono nominati su indicazioni del potere politico. La ‘privatizzazione’ dell’Imi si riduce quindi di fatto a una sua pubblicizzazione: di qui i giudizi fortemente critici di molti commentatori. Restano però le domande: si poteva fare diversamente? che cosa si può fare per il futuro? che cosa nell’immediato?
Il Tesoro mise in vendita l’Imi nel 1994; l’offerta fu accolta molto bene dal mercato internazionale: in Usa la richiesta superò di molte volte l’offerta. Alla prima domanda si può dunque rispondere: bastava venderla tutta allora.
Più complessa è la risposta alla seconda domanda: che presuppone la rivisitazione della natura e dello status giuridico delle fondazioni. Queste si collocano al confine tra privato e pubblico: private perché fondate e gestite da privati, pubbliche per gli scopi morali che ne giustificano l’esistenza. Esse dovrebbero essere invece collocate nel diritto privato, costituendo il pendant delle società per azioni: queste aventi per oggetto attività a fini di lucro, quelle regolate come organismi no-profit, tanto più utili ora che si accentua l’orientamento verso un maggiore concorso dei privati nella gestione di servizi pubblici, culturali, formativi, assistenziali.
Le fondazioni bancarie sono un genere speciale di fondazioni, e dovrebbero scegliere: o diventano investitori istituzionali in proprio, e allora si devono trasformare in società per azioni; o restano fedeli alla loro origine, e allora devono investire il loro patrimonio al solo scopo di produrre profitti per finanziare le attività istituzionali no-profit.
Potranno detenere partecipazioni di assoluta minoranza in banche e imprese; per dimostrare che in nessun modo vogliono concorrere al loro controllo strategico, dovranno agire attraverso il velo di un investitore professionale. I vertici delle fondazioni dovrebbero rappresentare le istituzioni e le attività imprenditoriali locali, e rispondere di come hanno impiegato il reddito da capitale per scopi no-profit: scuole, ospedali, musei.
Ma oggi le fondazioni posseggono le banche: il governo Dini ha richiesto loro di scendere sotto il 51 per cento di proprietà, ma è ovvio che questo non basta perché il controllo passi ad altri soggetti. Perché non vendono? Nessuno dei motivi addotti regge all’analisi. Si dice che il mercato non assorbirebbe l’offerta: ma nel mondo ci sono enormi capitali in cerca di investimenti, come il caso Imi insegna. Si dice che correremmo il rischio di farle comprare agli stranieri: ma se c’è un’attività non a contenuto strategico è proprio quella bancaria; non c’è un centro ricerche da mantenere nel paese, le grandi aziende provvedono già a finanziarsi sul mercato internazionale dei capitali, e anche le piccole hanno rapporti di credito dispersi tra una pluralità di istituti.
Se la preoccupazione è quella dell’adeguatezza del prezzo, assai più sospetto è quello fissato nel chiuso di una stanza tra tre o quattro operatori, che non quello fissato dal mercato. È nel fatto stesso di vendere che sta il principale vantaggio: per i clienti che hanno banche in vera concorrenza, per il mercato dei capitali che si ravviva per la presenza di nuovi titoli e di nuovi operatori. Si dice che si vuole favorire la proprietà diffusa: ma solo investitori istituzionali hanno le capacità di rappresentare gli interessi degli investitori individuali, tanto vale mettere in gioco subito quelli che esistono, senza aspettare che si formino i fondi pensione.
Come si vede, sono tutte ragioni che hanno le loro radici in una diffidenza verso i meccanismi di mercato; col fondato sospetto che questa sia solo lo schermo per gli interessi reali di chi il mercato davvero non lo vuole.
Nonostante tutte queste riserve, si deve riconoscere che assai peggio sarebbe stato se l’Imi non la si fosse proprio venduta. Di qui la risposta alla terza domanda: il Tesoro ha ancora da assegnare tre posti in Consiglio, li dia a dei privati veri. Dimostrerà che la soluzione adottata è la conseguenza di ritardi passati, e non la realizzazione di obbiettivi presenti.
luglio 9, 1995