Il regresso della lira nello Sme è un nuovo coerente segnale della volontà di Tesoro e Bankitalia di rassicurare i mercati sul proposito italiano di partecipare fin dall’inizio al club dell’Euro. La richiesta italiana si basa su un presupposto innegabile: la discesa dell’inflazione è risultata più rapida di quanto si osasse sperare, è un fatto positivo di straordinaria rilevanza. Su questa base si può sperare in un ulteriore ribasso dei tassi di interesse e dello spread Btp-Bund. Basta questo per dire che siamo tornati ai mitici anni Sessanta? Sbaglia chi lamenta un eccesso sul versante fiscale e un difetto su quello dell’offerta, del mercato e della concorrenza? Questo è l’interrogativo da cui deve partire chi, come me, in questi giorni ha avanzato tali critiche, pur essendo sostenitore del rigore. Per risultare più chiaro, restringo i riferimenti a due articoli apparsi su “Repubblica”, il primo di Lucio Villari e il secondo di Giuseppe Turani.
Lucio Villari ha sostenuto che gli sforzi per entrare in Europa trovano paragone adeguato nei prestiti forzosi sottoscritti durante le due guerre mondiali combattute in Europa. Un tale argomento, sostenuto per di più da uno storico, induce a una duplice riflessione.
Primo: l’Europa sarà pure il nostro obiettivo numero uno, ma paragonarla a una guerra è inaccettabile. Non solo è un capovolgimento della storia, visto che «mai più guerre» era la parola d’ordine dei Monnet, degli Schuman, degli Adenauer. Ma soprattutto perché, visto che l’argomento è sostenuto ai fini del consenso, non si può proporre ai cittadini italiani ed europei una meta se gli sforzi per raggiungerla sono paragonabili a un conflitto.
Secondo: Lucio Villari, in difesa dell’eurotassa, si appoggia al Keynes del 1939. Il riferimento, se proprio si vuole, dovrebbe essere al Keynes del 1919 non del 1939. Poiché il debito italiano per il suo ammontare è, a tutti gli effetti, paragonabile a quello di un paese uscito da una sconfitta, allora si dovrebbe piuttosto ricordare ciò che l’economista inglese, alla fine della prima guerra mondiale, rappresentava al Tesoro della Gran Bretagna, cioè le pericolose conseguenze che avrebbe avuto l’imporre così pesanti sanzioni alla Germania. L’eccesso di rigore, ammoniva inascoltato, avrebbe condotto al risultato opposto di quello che ci si proponeva, cioè un’Europa pacifica. Esso avrebbe invece portato recessione, la recessione disordine, il disordine sostegno al primo dei tedeschi che avrebbe preso a calci gli accordi di Versailles.
Poiché è un fatto che la protesta sociale, in Italia come in Francia e in Germania, come scrivono da tempo Delors, Schmidt e Giscard d’Estaing, vede nei sacrifici per Maastricht qualcosa — sia pur lontanamente — paragonabile agli obblighi iniqui di Versailles, cresce l’inquietudine per accostamenti impropri che, lungi dall’offrire solidità alle misure del governo, finiscono per circonfonderle di un’enfasi pericolosa.
Per spiegarmi meglio vengo ora alla riflessione di Turani. Anche in questo caso condivido lo spirito costruttivo che vi è sotteso: ma non la sua traduzione in formula. No, non possiamo chiedere agli italiani di credere di essere tornati ai miti ci anni Sessanta. Mancano infatti, di quegli anni, i tassi di crescita: uno 0,9 in più del pil ai loro occhi non può oggettivamente equiparare gli sforzi loro richiesti.
Mi si potrebbe obiettare che questi argomenti sono di un antieuropeista e di un oppositore dell’attuale governo. Non è così. Proprio i cambi rigidi spingeranno l’Italia a un impoverimento della base produttiva se non affianchiamo, al rigore di bilancio, azioni almeno di pari incisività per rendere più flessibile la nostra economia. Allo stesso modo ritengo che chi vorrebbe vedere anche questo sforzo accanto al primo, abbia il dovere di rappresentare con forza all’opinione pubblica questa necessità, senza per questo regalare all’opposizione una protesta fiscale che, per molti versi, è fondata.
Tweet
novembre 24, 1996