Lettera aperta di Franco Debenedetti, Oscar Giannino, Antonio Martino, Alberto Mingardi, Roberto Perotti, Nicola Rossi, Paolo Savona, Vito Tanzi
Caro direttore,
nei momenti di grande incertezza, il ruolo dell’informazione è assai delicato. Se gli economisti rischiano spesso di essere consiglieri del principe, estendere i rudimenti della cultura economica e finanziaria costituisce condizione per un dibattito pubblico più consapevole.
Additare untori e alimentare spauracchi (come è stato fatto nelle ultime settimane) suscita gli istinti peggiori, confonde le cause della crisi, nasconde le responsabilità vere.
Per questo motivo, oggi la stampa indipendente ha innanzi a sé una missione davvero cruciale. Per assolverla appieno, nell’interesse del lettore e dell’elettore, riteniamo importante richiamre l’attenzione su alcuni dati di realtà.
1) La crisi ha aperto un nuovo capitolo. Dai debiti delle istituzioni finanziarie, ai debiti sovrani. Dalle anche agli Stati. O forse è semplicemente ritornata alla sua origine, agli atti e alle omissioni di governi e di autorità di regolazione che hanno provocato la crisi o creato le condizioni per il suo insorgere. L’evidenza di questo nesso causale non esclude ovviamente che ci possano essere stati dei comportamenti illegali in senso proprio, o eticamente inaccettabili, dai quali ricavare indicazioni di regole diverse per il futuro. Ma individuare, e perseguire, abusi e illeciti non può e non deve evitare di comprendere le cause, per correggerle. Il mercato non è un ente che abbia un domicilio o un indirizzo postale. È l’insieme di un vastissimo numero di contratti e di scambi, che il mercato veicola e trasmette segnali. Un processo di apprendimento collettivo. Ci sono, e ci saranno sempre nel mercato, asimmetrie informative. Contribuire ad attenuarle ed eliminarle, significa migliorare l’efficienze del mercato e renderlo più trasparente. Sostenere che sia il mercato e non chi ne abusa, a produrre opacità e instabilità, è una mistificazione.
2) Interpretare il mercato come altro che questo, significa precludersi la possibilità di beneficiare del modo in cui esso crea conoscenza. I mercati non giocano al risiko: immaginare complotti, focalizzare l’attenzione su cene segrete e congiure di oscure forze del male, non aiuta la comprensione dei fenomeni. Troppo spesso la stampa dedica un’attenzione spropositata a spiare la vita degli operatori di mercato. Scegliere di guardare dal buco della serratura, anziché badare alla sostanza dei segnali di mercato, focalizzare l’attenzione sui vizi degli scommettitori, anziché cercare di capire perché le loro scommesse vanno o meno a segno, tradisce il sostanziale arretramento della cultura economica nel nostro Paese e, soprattutto, non è buona informazione. Non aiuta a capire: serva solo a trovare nemici.
3) Innanzi a una crisi della portata di quella che stiamo vivendo, riteniamo che ci sia spazio per il dibattito. Perché i segnali di mercato vanno interpretati, e per questo è necessario che le diverse tesi si incontrino e, se del caso, si scontrino anche. La differenza di opinioni e vedute arricchisce e migliora la comprensione. Tuttavia, come sappiamo tutti per esperienza, la libertà di opinione è una costruzione sempre fragile. Rendendo più costoso il finanziarsi, i mercati segnalano che gli Stati hanno i conti fuori controllo. È comprensibile che i governi vogliano rendere più arduo e costoso il segnalarlo, applicando ai mercati il silenziatore della «Tobin Tax», o istituendo nuove agenzie di rating pubbliche, oppure financo accusando i credit default swap di essere al servizio di potenze ostili. I segnali del mercato vengono delegittimati come espressione di improprie, scorrette e immorali ondate di speculazione. Ma la libertà di stampa dovrebbe battere sulla responsabilità e le menzogne di chi ha accumulato i debiti pubblici, non aiutare a mascherarle attaccando chi le mette alla corda.
4) La grande e persistente volatilità dei mercati dopo il «tampone» europeo alla crisi greca misura l’assai dubbia adeguatezza delle misure che verranno richieste a ciascuno Stato, delle capacità di farle osservare anche in futuro, delle conseguenze che esse potranno avere sulla crescita. Ma è solo un bene, che il mercato abbia reso finalmente tangibile il rischio elevato del debito sovrano. I costi, gli squilibri, le tasse dagli Stati europei minacciano non solo la crescita ma la stessa stabilità di molti Paesi europei. I dati economici erano lì a dimostrarlo da tempo. Ma finché a leggerli erano politici ed economisti, era facile ignorarli. La crisi greca ha reso indilazionabile la necessità di scoprire il bluff continentale.
5) Di questo epocale problema dovremmo preoccuparci e occuparci. Gridare all’untore non farà che rallentare una discussione necessaria, renderà solo più costosa e drammatica una transizione non facile, che richiederà l’individuazione delle condizioni per tornare al rigore fiscale e monetario indispensabile per crescere. Esse non sono certo quelle di creare una grave deflazione europea e globale.
Tutto ciò chiama a un ruolo molto impegnativo le classi dirigenti e le èlite intellettuali del Paese, come gli strumenti di comunicazione di sui essi possono avvalersi.
Perché le migliori soluzioni nascono innanzitutto dalle parole adeguare con cui si spiegano i problemi.
ARTICOLI CORRELATI
La marea nera e l’economia dei dogmi
di Mario Pirani – La Repubblica, 17 giugno 2010
maggio 21, 2010