La rinviata scadenza del bando per la vendita dell’ILVA – ufficialmente per valutare eventuali modifiche al piano ambientale – è anche un’occasione per aggiornare le considerazioni sul futuro del centro siderurgico dopo le tempeste che l’hanno colpito. Sì, al plurale perché sono due: quella di Taranto, per l’ambiente; quella mondiale, per la sovrapproduzione del mercato dell’acciaio.
La prima è esplosa nel luglio 2012 con l’ordine di sequestro “senza facoltà di uso parziale”: ora c’è un piano per 800 milioni di interventi a carico dei commissari governativi, sia quanto a onere economico, sia quanto a scrutinio della magistratura. Per questo Ondra Otradovec, responsabile dell’area fusioni e acquisizioni di Arcelor Mittal, ha potuto parlare di “maggiore distinzione fra le responsabilità di chi viene accusato di avere inquinato Taranto, e le responsabilità di chi oggi sarà chiamato a gestire il risanamento ambientale e il turnaround industriale” (Sole 24 Ore 3 giugno 2016).
La seconda si è andata via via addensando in questi quattro anni, ed è scoppiata nel 2015. L’industria dell’acciaio è ciclica per natura, ma questa crisi è diversa. Ha origine in Cina, che nel boom aveva massicciamente investito in acciaierie: nel 2014 era arrivata a produrre quasi la metà dell’acciaio mondiale. Quando il consumo interno inizia a diminuire, le acciaierie cinesi incrementano le esportazioni: nel 2015 più dell’intera produzione del Giappone, secondo produttore mondiale. La sovrapproduzione cinese, il doppio della produzione europea, è già costata la perdita di migliaia di posti di lavoro. UE ed USA pensano a introdurre dazi (anche del 500%), la Cina risponde duramente. Intanto i prezzi, nel solo anno passato, sono scesi del 30%.
Questa sarà una crisi lunga, troppa è la capacità installata. Come reagire? Tata a Port Talbot nel Galles perde 1 mio £ al giorno: chiedere ai Governi di accollarsi una parte delle perdite, per evitare il licenziamento di dipendenti servirebbe a rinviare, non a risolvere. Le economie di scala, quelle che hanno cercato di realizzare British Steel fondendosi con Hoogovens e Arcelor con Mittal, hanno un limite. Sono i costi europei a impedire di essere competitivi in un mercato mondiale che per l’80% è una commodity. La sola soluzione è spostarsi su prodotti più ricchi; è quello che pensa di fare Greybull Capital dopo aver comprato da Tata l’impianto di Scunthope (Regno Unito) per 1£. E’ quello che ha fatto con successo Voestalpine dopo il fallimento del 1980: una volta faceva rotaie, oggi vende aghi di scambio per treni ad alta velocità, e ne cura la manutenzione. Ma evidentemente non è una strategia che può essere adottata da tutti o che tutti riescono ad adottare. Stesso discorso per la produzione con forno elettrico: ha il vantaggio di flessibilità rispetto a quello a ciclo integrale, ma non può essere un modello universale.
Che cosa fare a Taranto? Mai come in queste circostanze è palese che solo il mercato dispone delle informazioni per fare una scelta. E’ questo il punto di partenza di ogni ragionamento: il governo deve assumerlo con convinzione e seguirlo come tavola della legge. Nello “scegliere il vincitore” deve prescindere da ogni criterio di nazionalità o di tecnologia. Deve mirare alla sostenibilità nel tempo invece che alla soluzione a breve: quindi riconoscere che un ridimensionamento di ILVA è inevitabile, e invece esigere dal compratore di ancorare il suo impegno a un investimento finanziario adeguato. Non è lo Stato che deve fornire capitale: e non perché sarebbe aiuto di Stato (se per quello basterebbe ricorrere alla CDP). Al contrario, deve evitare che il compratore immagini che la presenza nel capitale possa valergli un occhio di riguardo da parte della magistratura, o una sorta di Atlante-2 che finanzi sul mercato nazionale il circolante dell’acciaieria. Lo Stato deve solo garantire il rispetto dei diritti di proprietà (e sarà credibile se lo dimostrerà anche per il passato). Solo se il governo ne è profondamente convinto, tale apparirà nelle negoziazioni: ogni cedimento sarebbe appiglio per future richieste.
Qui non c’è nessuna bandierina da piantare, neppure per assicurare rifornimenti alle imprese italiane: quelle che lavorano coil e lamiere, di acciaio normale o speciale, per almeno un decennio non avranno problemi ad approvvigionarsi a prezzi convenienti. Non c’è nessuna ragione di pagare un sovrapprezzo per difendere la nostra industria meccanica da un pericolo inesistente. In ILVA strategico è solo salvare un know how importante e contenere l’entità della crisi locale.
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giugno 12, 2016