Sul problema delle Fondazioni bancarie
“Voi pensate troppo al lato banche e non abbastanza al lato fondazioni”: questa era la principale critica che ci venne mossa quando, sette anni fa, con Alessandro De Nicola, Francesco Giavazzi e Alessandro Penati, presentammo il progetto di privatizzazione delle casse di risparmio. Invece, dicevano i nostri critici, la più importante innovazione del decreto Amato consiste nel far sorgere anche in Italia gli enti no-profit: essi consentiranno che l’iniziativa di soggetti privati completi l’azione dello Stato in settori quali la sanità, la formazione, la cultura, la ricerca.
Radicate nelle terre di origine, indipendenti dagli intrecci politici e partitici, con il contributo professionale e patrimoniale della società civile, le Fondazioni saranno l’alternativa duttile e intelligente allo statalismo.
La legge Ciampi Pinza é figlia di questa impostazione. Ma il legame banche fondazioni non si è sciolto. Giulio Tremonti prima delle elezioni aveva dichiarato il proposito di intervenire su questa situazione. Diventato Ministro del Tesoro, l’ha fatto con un emendamento nella Finanziaria 2002, seguiti da un paio di regolamenti, a cui ancora si stanno apportando correzioni. Ma il quadro é sufficientemnete chiaro. La maggioranza dei membri del Consiglio di Amministrazione è nominata dagli Enti locali; sui settori di intervento c’è un rigoroso controllo del Tesoro; il 10% del patrimonio non bancario deve essere investito in opere pubbliche; le partecipazioni bancarie vanno intestate con mandato irrevocabile a Società di Gestione del Risparmio, che non rispondono né a banche, né a industrie, né a fondazioni.
A distanza di 12 anni dalla legge Amato, il nodo che lega le banche alle fondazioni Tremonti l’ha finalmente reciso; all’ambiguità per cui le fondazioni, da sole o di intesa tra loro, continuano ad essere al centro degli equilibri proprietari delle banche ha posto certamente un termine. Ma a prezzo di un risultato che é ben diverso da quello che volevano sia quelli che guardavano il problema dal lato banche, sia quelli che lo guardavano più dal lato fondazioni. Quanto alle banche, noi proponevamo la loro privatizzazione affidata a puri meccanismi di mercato: e ci ritroviamo con banche per ora gestite da SGR aperte alla moral suasion del Tesoro, mentre l’esito finale delle privatizzazioni sarà affare da discutere tra Enti Locali e Bankitalia. Quanto alle fondazioni, si volevano le fondazioni soggetti di diritto privato, strumenti per la libera iniziativa di privati: e ci ritroviamo con qualcosa di molto simile a delle finanziarie regionali.
Come è stato possibile? La realtà è che le fondazioni bancarie hanno un vizio di origine, e che, con le grandi fondazioni americane a cui amano paragonarsi, hanno in comune solo il nome. Anche se alcune (poche) di esse hanno fatto il salto e stanno oggi alla pari tra le grandi fondazioni europee – esemplare in questo la Compagnia di San Paolo di Torino –sta il fatto che non esiste nessuno che con il suo patrimonio abbia costituito la fondazione, nessuno i cui eredi continuino ad alimentarla e ne siano i legittimi referenti. Non c’è nella loro storia nessun signor Sanpaolo, nessun signor Cariplo: il “fondatore” delle nostre fondazioni è stato un Ministro, Giuliano Amato, e il patrimonio l’ha creato la lettera della legge. La continuità della linea proprietaria non é un fatto irrilevante: il Ministro Tremonti, che ha abolito l’imposta di successione, lo sa bene. Per questo, ho il sospetto che ci fosse un sottile sarcasmo quando, in un’intervista al Corriere, indicava alle fondazioni il modello delle famose fondazioni americane.
Due erano le domande a cui le Fondazioni dovevano dare risposta, Primo: che cosa fare? Secondo: a chi rispondere del proprio operato?
La prima domanda era semplice: fare quello che dice la legge Ciampi, dedicarsi al no- profit e cedere le banche. E’ vero, vendere non era nella piena loro disponibilità, dato che per ogni operazione ci vuole il placet di Bankitalia: ma invece di considerare questo un ostacolo da superare, anzi un potenziale pericolo da evitare, le Fondazioni per lo più l’hanno preso come un comodo alibi che consentiva loro di avere un ruolo da protagonista negli equilibri rinascimentali del nostro sistema finanziario.
Al problema della accountability invece non era semplice dare una risposta completamente soddisfacente. L’accountability era il punto debole, la foglia del tiglio posatasi sulla schiena di Sigfrido: ma sono state le partecipazioni bancarie ad armare il braccio di Hagen. Se non avessero voluto conservare l’oggetto del desiderio, cioè le banche, forse ci si poteva pragmaticamente accontentare di una risposta meno netta. Netta é invece la risposta di Tremonti: se il patrimonio delle fondazioni appartiene alla comunità, sono i cittadini di quella comunità che devono giudicare, col loro voto, di come è stato gestito; quindi devono essere i rappresentanti politici di quella comunità a nominare gli amministratori e a rispondere del loro operato di fronte agli elettori. Risposta ineccepibile in teoria, ma di fatto impraticabile. Perché se i consiglieri sono nominati da regioni, province e comuni, ciascuno con il proprio governo, magari di colore diverso, come faranno gli elettori a esprimere il loro giudizio? Dovranno informarsi su come hanno votato i singoli consiglieri sulle singole proposte, magari valutando anche le dissenting opinions? Finirà che invece dell’accountability, si avrà una gestione consociativa in cui si cercherà di tenere buoni tutti.
Questo esito non era inevitabile. C’è stata, tra il ‘96 e oggi, una breve finestra di tempo in cui le Fondazioni sarebbero potute diventare veramente protagonisti privati del no-profit. Dovevano capire che, dai loro modelli famosi, li separava un divario costitutivo: non potendo cambiare i loro cromosomi, dovevano almeno comprarsi un’araldica, guadagnarsi sul campo il titolo nobiliare. Per riuscirci avrebbero dovuto fare quello che ci rimproveravano di non considerare abbastanza: il no-profit come unico, totalizzante impegno. E avrebbero dovuto considerare di più quello che noi chiedevamo di fare: vendere le banche. Non l’hanno fatto: ma se alla privatizzazione incompiuta dei governi di centro sinistra è succeduta la “pubblicizzazione provvisoria” di questo governo, le sole che non possono lamentarsi sono le fondazioni.
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maggio 18, 2002