di Salvatore Bragantini
Telecom Italia (TI), con margini ancora alti ma grandi debiti, non è cosa per azionisti deboli quali Banca Intesa, Generali e Mediobanca. Il controllo di TI tramite la finanziaria Telco gli scottava in mano e lo cedono alla spagnola Telefonica. Questa però non pensa a svilupparla investendo anche in Italia, ma a spolparla pro domo sua in America Latina.
Telefonica, che a debiti sta già bene del suo, è il padrone sbagliato: esclude l’aumento di capitale che (insieme a una strategia chiara) serve a TI e vuole ridurne i debiti spartendosene le spoglie con altri gestori grazie ad accordi di cartello.
È giusto opporsi all’operazione non per l’italianità della società, ma perché un’impresa importante nel depresso panorama nazionale non va mutilata. Lo strumento giusto sono le regole per approvare le operazioni fra parti correlate (quelle fatte tra persone o aziende potenzialmente in conflitto di interesse, ndr); l’han capito i Fossati, detentori del 5% delle azioni.
Il controllo di TI cambierà di nuovo senza che a tutti gli azionisti sia stata fatta un’offerta pubblica di acquisto (Opa); ciò perché la quota Telco sul capitale ordinario è del 22%, meno della soglia del 30% oltre la quale il Testo Unico della Finanza (Tuf), partorito nel ‘98 dalla commissione guidata dal direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, impone l’Opa.
Per bloccare l’esecuzione dell’operazione, ancora in fase iniziale, uno schieramento di senatori di tutti i gruppi ha approvato una mozione (primi firmatari Massimo Mucchetti, del Pd, e Altero Matteoli, Pdl, presidenti delle commissioni Industria e Lavori pubblici) per chiedere al governo un decreto legge che obblighi all’Opa chi assuma il controllo di fatto di una quotata, pur con meno del 30% del capitale.
Ciò al fine esplicito di permettere agli azionisti di minoranza di uscire dall’investimento quando cambi il soggetto che controlla la società. E a quello, appena dissimulato, di bloccare un’operazione considerata nociva per TI e per il Paese. Chi condivide il primo obiettivo e comprende il secondo potrà, pur senza la pretesa di detenere verità rivelate, instillare dubbi in così vasto consenso, segnalando i rischi di grandi scelte nate su casi singoli.
Intervenire su un’operazione in corso non invita a investire in Italia, ma accettiamo il (friabile) argomento che si è ancora in fase iniziale. Un decreto legge sarebbe però privo delle indispensabili necessità e urgenza, se non richiamando apertamente l’operazione TI.
Dal ‘92 al ‘98 abbiamo avuto l’obbligo di Opa per chi acquisiva il controllo di una quotata; l’esperienza portò Consob a sostenere nella commissione Draghi (cui chi scrive ebbe l’onore di partecipare) una soglia fissata al 30%.
Certo, si può cambiare idea se argomenti solidi inducono a farlo, ma non è questo il caso. È vero, una soglia fissa induce gli operatori a collocarsi subito sotto per eluderla; meno ovvie, ma già viste, sono le conseguenzedi una soglia individuata caso per caso.
La prima è l’incertezza: chi progetta un’operazione, non sapendo se sarà poi soggetto all’Opa, coinvolgerà Consob nel disegno degli accordi, per renderli accettabili dalle norme così da ridurre i rischi. Ciò carica responsabilità e oneri di prova su una Consob che (con l’organo collegiale purtroppo ridotto a tre membri) potrebbe non reggere al compito; in regime di «Tar-crazia», infatti, i ricorsi sarebbero garantiti, con tanti saluti alla certezza del diritto. Se proprio si volesse seguire la mozione, ogni incertezza andrebbe rimossa legando strettamente l’obbligo di Opa alla nomina della maggioranza del consiglio d’amministrazione.
Anche a trascurare temi tecnici (come valutare, ad esempio, il controllo acquisito con il solo esercizio dei diritti d’opzione su un aumento di capitale?), la legge delle conseguenze impreviste è in agguato: ammettiamo che la mozione diventi legge e Telefonica cerchi i soldi per l’Opa. Se intanto i Fossati radunassero un 25%, svanirebbe il controllo di Telco e, come nuovi controllanti, sarebbero essi tenuti all’Opa, il che li dissuaderebbe dal provarci.
Eccoci al maggior difetto della proposta: aumentando l’onere per chi voglia sottrarre ad altri il controllo di fatto, lo si scoraggia. Se chi lo fa deve lanciare un’Opa sul 100% l’operazione diviene molto più onerosa, quindi meno probabile.
Per Mucchetti (Il Sole 24 Ore di ieri) la soglia fissa giova solo alla finanza: come se essa non guadagnasse organizzando i grandi debiti necessari a sostenere un’Opa sul 100%. A chi scrive pare invece che la proposta, a dispetto delle intenzioni, rischi di incatenare gli stakeholder e gli investitori diffusi — spesso la vera maggioranza—ad una minoranza del capitale organizzata e prepotente, che trova in quei buoni propositi il catenaccio ideale.
Da un lato sta il cambiamento, dall’altro l’ingessamento degli assetti proprietari: tutto bene se pensiamo che le nostre imprese siano ben gestite nell’interesse di tutti e poco sia da cambiare, ma tale non è certo il pensiero di Mucchetti e di molti firmatari. La cartina di tornasole sarà la reazione di Confindustria alla proposta: scommettiamo che (magari con l’aggiunta di una pillola avvelenata come l’Opa parziale per chi insidi il controllo, già prevista dalla legge del ‘92) sarà positiva?
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ottobre 23, 2013