Nell’intervista al ministro Speranza non ho trovato traccia di risposta, e a dire il vero neppure di domanda, sulla questione centrale del modo in cui è stata gestita la pandemia in Italia. Sinteticamente, la questione dei tamponi; più precisamente, la questione dei dati. E’ chiaro, da decine di testimonianze professionali, da dichiarazioni di persone che hanno avuto la malattia, che i tamponi sono stati per lungo tempo razionati. Il Prof. Crisanti afferma che il buon risultato del Veneto è dovuto al suo avere contraddetto ordini precisi sulla limitazione dell’uso dei tamponi. Ricorderà, caro direttore, che all’inizio la cosa era stata giustificata con ragioni non propriamente cliniche, evitare cioè di presentare un quadro di contagio peggiore dei nostri vicini europei. Sull’argomento il Foglio ha pubblicato tre articoli a firma di Natale D’Amico e mia (1° aprile, 17 aprile, 16 giugno). Le indagini campionarie raccomandate da due presidenti emeriti dell’Istat non sono state eseguite. Secondo Luca Ricolfi (sull’Huffington Post), “il governo, che avrebbe tutto l’interesse a fare tamponi a tappeto per portare i contagi vicino allo zero prima dell’autunno, non fa nulla lasciando che le regioni ne facciano pochi pur di evitare di scoprire troppi nuovi casi in questa fase”. Il razionamento dei tamponi ha avuto e avrà conseguenze anche sul numero dei contagiati. Chi dà gli ordini, il ministero o le regioni? Il presidente Conte, che intende chiederlo, ritiene che “ragionevolmente lo stato di emergenza sarà prorogato”. Quanto ragionevole è chiedere la proroga se non si vuole fare quanto è necessario per misurare l’emergenza?
La risposta del Direttore
Il tema dei tamponi è certamente importante e sono sicuro che se l’Italia avesse scelto di estendere a tutto il resto del paese il metodo Crisanti la pandemia sarebbe stata gestita ancora meglio di come è stato fatto (e scrivo “ancora” perché nonostante tutto resto convinto che l’Italia abbia dato prova di essere un grande paese). Ma mi permetto di farle notare, caro Debenedetti, che una volta individuato il pelo nell’uovo, che c’è, bisognerebbe poi concentrarsi a guardare bene l’uovo. E se si sceglie di osservare l’Italia da questa prospettiva ci si renderà conto che il disastro non c’è e che buona parte dei problemi con cui ha fatto i conti il nostro paese coincide con lo stesso tipo di problemi con cui ha dovuto fare i conti il resto del mondo. Ieri, per esempio, è stato pubblicato uno studio dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano che ha analizzato i tassi ufficiali di mortalità per Covid-19 in nove ambiti metropolitani occidentali con caratteristiche simili per demografia, attività commerciali e spostamenti di persone. Dallo studio emerge che i tassi di mortalità grezzi più elevati che ha registrato la Lombardia sono nella media europea se si considerano le differenze tra le età medie delle varie regioni analizzate. In altre parole, la percentuale di anziani in Lombardia corrisponde al doppio rispetto a quella presente nelle regioni europee più colpite dalla pandemia e la ragione dell’alta mortalità nel nostro paese è imputabile più a questo che al presunto disastro del sistema Italia.
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