La vicenda Embraco conferma quanto diceva il Nobel Samuelson della teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, essere vera ma non banale: confermata da 199 anni, non è tuttora compresa anche da persone intelligenti. I Paesi, dice Ricardo, traggono vantaggio dallo specializzarsi nella produzione dei beni in cui sono più efficienti relativamente ad altri beni: dovrebbero vendere all’estero le eccedenze dei primi, e importare i secondi. Le multinazionali sono tali perché, a differenza dalle aziende puramente esportatrici, hanno messo in pratica la teoria di Ricardo. E sappiamo cosa ha significato questo per la povertà nel mondo. “Gioco al massacro, concorrenza distruttiva, gara al ribasso da cui usciamo tutti impoveriti”, come scrive Federico Rampini? (Embraco i veri padroni del gioco, la Repubblica, 20 Febbraio 2018). Non addossiamo alla vicenda Embraco, oltre alle colpe specifiche che possono esserci, anche quella di una lettura così paradossale, e datata, delle vicende del mondo.
Gli Stati, per definizione, sono autonomi nel definire il proprio modello, fiscale e sociale. Lo sono, nell’ambito di regole condivise, anche quando fanno parte della federazione americana o dell’Unione Europea. Se fanno pagare meno imposte, potranno fare meno investimenti; se ostacolano la presenza dei sindacati, avranno difficoltà a negoziare contratti di lavoro. I “doveri di solidarietà fiscale“ presuppongono che oltre a chi riceve ci sia qualcuno che dà, qualcuno in carne ed ossa, con le proprie risorse, e che va anche a votare. L’Europa, che ammette concorrenza tra sistemi economici, vieta che venga distorta da aiuti a una specifica azienda o uno specifico settore industriale. A controllare c’è la D.G. Concorrenza, ora guidata dalla severa Margrete Vestager.
Del dumping invece si occupa il WTO. Parlarne tra stati della federazione, come fa Rampini, è del tutto improprio. Diversamente improprio l’uso che ne fa il presidente Trump: lui che guarda solo al saldo della bilancia commerciale, lo legge come un attacco all’America, e minaccia di imporre dazi a chi importa “troppo”. Una provvidenza per chi soffre la concorrenza estera, tant’è che fioriscono le richieste di imporli.
Veniamo a noi. Se cresciamo poco è perché cresce poco la nostra produttività. Questo è un valor medio, tra aziende che esportano, e altre a rischio di chiudere. Per lo “sviluppo economico” bisogna far sì che le risorse, umane e finanziarie, si spostino da queste a quelle. Ciò dipende delle decisioni quotidiane degli operatori e il Governo ha un ruolo fondamentale nell’orientarle. Se invece si mettono freni alla mobilità, se con dichiarazioni muscolari si sbandierano impegni a proteggere e determinazione a impedire, è a tutto il Paese che si manda un messaggio negativo: ai settori più produttivi che devono investire per rimanere tali, a quelli meno produttivi che devono cambiare. Non si possono contemporaneamente tenere in piedi industrie che si dimostrano poco produttive, e incentivare le altre con Industria 4.0. Non è (solo) una questione di risorse, o di competenze, ma di rendere chiaro a tutti il ruolo che si dà il Governo di oggi e quello che si auspica debba darsi quello di domani.
Il caso Embraco è l’occasione per dare al Paese un segnale positivo: il Governo considera suo compito proteggere i lavoratori, facendosi carico di politiche attive del lavoro che li accompagnino e li rendano adatti a ruoli in nuovi modelli di business. Non è un compito facile, ancora più complicato che trovare le risorse con cui finanziarle: si tratta di mobilitare –cercandole, attivandole, anche creandole – competenze atte a costruire un ponte verso un futuro, di necessità noto solo in modo generico. Altri paesi hanno avuto successo, ed è su questo che si misura la qualità di un Governo. Questo è il suo compito, non quello, di cui si è sentito parlare, di inventarsi piani di riconversione industriale: il Governo non è un fondo di private equity. D’altra parte non ci sono alternative, c’è sempre qualche Slovacchia più produttiva di noi.
Embraco i veri padroni del gioco
di Federico Rampini, La Repubblica – 21 Febbraio 2018
Lo scandalo Embraco, 500 posti di lavoro che rischiano di sparire dall’Italia, è la tragica conferma che le regole del gioco di questa globalizzazione sono state scritte dalle multinazionali a loro uso e consumo. Ivi compreso nel mercato unico europeo. Anch’esso vive nel ricatto quotidiano delle grandi aziende verso le comunità di cittadini e gli Stati nazione. I diktat li conosciamo. O mi riduci le tasse o chiudo, licenzio, investo altrove. O mi dai fondi pubblici o li ottengo da altri governi. Poi magari, dopo avere incassato le agevolazioni, la multinazionale chiude e se ne va comunque, perché in un Paese vicino (la Slovacchia nel caso di Embraco) trova salari più bassi e incentivi pubblici più generosi. Tra governi va avanti da decenni questo gioco al massacro, una concorrenza distruttiva, una gara al ribasso dalla quale usciamo tutti impoveriti. Un giorno anche la Slovacchia, se i suoi operai osano conquistare salari migliori, vedrà fuggire le aziende: magari verso Paesi balcanici più poveri che stanno negoziando l’adesione all’Unione europea. Questa Europa è sempre meno la terra dei diritti dei lavoratori, ormai tenta di inseguire un modello americano: il dumping salariale è normale all’interno degli Stati Uniti dove l’Alabama può vietare di fatto l’ingresso dei sindacati in azienda, per attirare fabbriche che lo preferiscono al Michigan. In più il federalismo fiscale consente a vaste zone governate dalla destra (dal Texas alla Florida) di tagliare i servizi pubblici ai cittadini in modo da essere paradisi fiscali per le aziende. Gli Stati Uniti però hanno almeno una difesa esterna. Lo si è visto di recente proprio in un caso che riguarda la Whirlpool, cioè la casa madre di Embraco. È stata la Whirlpool, produttrice di elettrodomestici, a implorare Donald Trump di proteggerla contro la concorrenza della Lg sudcoreana. La Casa Bianca ha accolto la richiesta e ha inflitto un superdazio sulle lavatrici Made in South Korea. Il protezionismo è la reazione logica, se ti sei convinto che l’occupazione dei tuoi cittadini è minacciata da una concorrenza sleale di Paesi stranieri. È inutile accusare di demagogia i politici populisti. Chi alimenta il protezionismo sono le multinazionali. Hanno fatto secessione dai propri Paesi. Hanno tagliato ogni legame di solidarietà con i propri luoghi d’origine. Hanno calpestato i doveri di solidarietà fiscale a cui noi comuni mortali siamo sottoposti. Hanno creato un mondo dove solo gli stipendi dei loro top manager sono una “variabile indipendente”, fissata da chi quegli stipendi riceve. Poi, se fa comodo Embraco) trova salari più bassi e incentivi pubblici più generosi. Tra governi va avanti da decenni questo gioco al massacro, una concorrenza distruttiva, una gara al ribasso dalla quale usciamo tutti impoveriti. Un giorno anche la Slovacchia, se i suoi operai osano conquistare salari migliori, vedrà fuggire le aziende: magari verso Paesi balcanici più poveri che stanno negoziando l’adesione all’Unione europea. Questa Europa è sempre meno la terra dei diritti dei lavoratori, ormai tenta di inseguire un modello americano: il dumping salariale è normale all’interno degli Stati Uniti dove l’Alabama può vietare di fatto l’ingresso dei sindacati in azienda, per attirare fabbriche che lo preferiscono al Michigan. In più il federalismo fiscale consente a vaste zone governate dalla destra (dal Texas alla Florida) di tagliare i servizi pubblici ai cittadini in modo da essere paradisi fiscali per le aziende. Gli Stati Uniti però hanno almeno una difesa esterna. Lo si è visto di recente proprio in un caso che riguarda la Whirlpool, cioè la casa madre di Embraco. È stata la Whirlpool, produttrice di elettrodomestici, a implorare Donald Trump di proteggerla contro la concorrenza della Lg sudcoreana. La Casa Bianca ha accolto la richiesta e ha inflitto un superdazio sulle lavatrici Made in South Korea. Il protezionismo è la reazione logica, se ti sei convinto che l’occupazione dei tuoi cittadini è minacciata da una concorrenza sleale di Paesi stranieri. È inutile accusare di demagogia i politici populisti. Chi alimenta il protezionismo sono le multinazionali. Hanno fatto secessione dai propri Paesi. Hanno tagliato ogni legame di solidarietà con i propri luoghi d’origine. Hanno calpestato i doveri di solidarietà fiscale a cui noi comuni mortali siamo sottoposti. Hanno creato un mondo dove solo gli stipendi dei loro top manager sono una “variabile indipendente”, fissata da chi quegli stipendi riceve. Poi, se fa comodo in un contesto come quello americano, le stesse multinazionali possono bussare alla porta dei governi chiedendo, oltre agli sgravi fiscali, protezione contro la concorrenza straniera: il caso Whirlpool-Trump. È ancora più grave che questi giochi al massacro (dei posti di lavoro, del patto di cittadinanza, dello Stato di diritto) possano accadere anche all’interno dell’Ue. Bruxelles ci ha messo troppi anni, per reagire al dumping fiscale dell’Irlanda che è diventata la sede di comodo delle multinazionali Usa. Quando se n’è accorta, era tardi: Trump ha varato un maxi-condono e i capitali di Apple & C. tornano a casa, allettati da nuovi privilegi e regalie. Nel caso Embraco abbiamo la beffa dei fondi europei usati a fini di dumping sociale. Nessuno deve stupirsi, a Bruxelles, se dalle urne delle elezioni nazionali escono premiate forze politiche che all’Europa non credono più.
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