Buono e inutile: questo è il giudizio, più conciso che preciso, che credo si debba dare al disegno di legge Frattini sul conflitto di interessi. Buono nel senso che ha detto Sabino Cassese (sul Corriere della Sera del 1° marzo), migliorabile nel senso da lui suggerito (sul Sole di giovedì 7 marzo).
Ma inutile per risolvere il problema che occupa la scena politica italiana dal 1994: quello del rapporto tra potere politico e potere mediatico. All’art. 3 la legge precisa i due casi in cui si ha conflitto di interessi: quando il titolare di cariche di governo è in condizione di incompatibilità e quando l’atto di governo ha incidenza sul suo assetto patrimoniale. L’art. 2 precisa che l’incompatibilità è quella degli amministratori e non del proprietario.
Se ciò di cui si discute, ciò che l’opposizione contesta al capo dell’esecutivo, ciò che larga parte dell’opinione pubblica anche non di sinistra trova una anomalia da sanare, fosse la proprietà di un’impresa di costruzioni, di un’assicurazione, di una fabbrica di aerei, e non invece lo specifico prodotto informazione, e la specifica industria che lo produce: in questo caso questa legge andrebbe bene e meglio ancora andrebbe se fosse resa un po’ più incisiva. Andrebbe bene se l’Italia non fosse il paese in cui tutti i grandi giornali nazionali sono proprietà di gruppi industriali che hanno altra vocazione o altro baricentro imprenditoriale; se uno dei più autorevoli, quello su cui sto scrivendo, non fosse di proprietà della Confederazione degli industriali; se la proprietà del maggior quotidiano nazionale non fosse legata al delicato equilibrio di un patto di sindacato tra i maggiori gruppi industriali del paese.
Andrebbe bene se la vicenda delle nomine Rai non avesse dimostrato quanto stretto sia il rapporto tra proprietà (in questo caso il capo del governo che ne è il titolare ultimo) e amministratori. Perché venissero nominati amministratori a lui graditi, Berlusconi ha perfino rischiato di compromettere rapporti con alleati e con istituzioni; e la vicenda si è chiusa quando Berlusconi ha accettato che fossero nominati amministratori “non riconducibili” a lui.
Esistono già in legge le categorie del controllo, del controllo congiunto, dell’azione di concerto: servono quando si tratta di gestire proprietà, di spartire gli utili, ma sono inadeguate, tanto da doverne introdurre una nuova, quella appunto della “riconducibilità”, quando si ha a che fare non con la materialità di un prodotto, ma con l’immaterialità di un’opinione, dell’angolo da cui guardare un avvenimento, delle parole con cui raccontarlo.
In questo senso il disegno di legge Frattini è inutile. E l’unico emendamento che l’opposizione dovrebbe proporre e che la maggioranza potrebbe accettare è quello del titolo, aggiungendo l’aggettivo “economico” a precisare che solo questi sono i conflitti di interessi che questa legge può risolvere, non quelli tra potere politico e potere mediatico. O, con paradossale concisione, “risoluzione di conflitti di interessi”, anziché “dei conflitti di interessi”.
Non si risolve la sostanza del problema dando poteri sanzionatori all’antitrust, quando l’atto che rileva non è una norma che può modificare i conti economici, ma una linea editoriale che può spostare consensi; quando la consistenza di ciò che importa non è quella solida dei valori patrimoniali, ma quella eterea della battuta di un comico o dell’ammiccamento di un presentatore.
Strade legislative per obbiettivi più ambiziosi appaiono impercorribili. Quella della ineleggibilità sembra contraddetta dal senso comune: come si fa a dichiarare ineleggibile chi prende la maggioranza del voto degli elettori?
Quella dell’obbligo a vendere è da molti ritenuta non costituzionale; lo riconobbe lo stesso governo di centro sinistra con la legge Ciampi sulle fondazioni bancarie, che, proprio per questa ragione, non contiene norme cogenti, ma solo incentivi. Comunque il centro sinistra ha ritenuto (secondo me saggiamente) di non percorrere questa strada quando era al governo; e oggi che è all’opposizione, è bizzarro pretendere che il presidente del consiglio faccia votare dalla sua maggioranza una legge che gli ordina di dismettere una sua proprietà.
Quella del referendum è rischiosa; e poi, si abroga una legge per i suoi effetti indesiderati, mentre qui la si vorrebbe eliminare per quello che non fa, e cioè risolvere il conflitto di interessi televisivo.
“Lei ritiene compatibile che un grande imprenditore, proprietario anche di media, sia allo stesso tempo capo del governo? ” ha chiesto Paolo Valentino del Corriere della Sera a Gerhard Schroeder. A questa “domanda che pongono i giornalisti di tutto il mondo”, il cancelliere ha risposto che “in Germania una situazione del genere sarebbe difficilmente immaginabile”, ma che “questa questione deve essere decisa in Italia”.
Decisa dagli elettori, quando saranno chiamati nuovamente a scegliere da chi essere governati. Non decisa in modo nominalistico come vuole la maggioranza, pretendendo che il problema non esiste; non decisa in modo giacobino come vorrebbe una parte dell’opposizione, esigendo che venga tagliata in radice.
La soluzione vera andrà cercata altrove, in una riforma dell’intero sistema televisivo. Ma per stare nel tema di cui qui si parla, una cosa intanto si dovrebbe fare, una cosa indispensabile per avviare quella riforma: eliminare il conflitto di interessi in capo a maggioranza e opposizione. Invece che lottizzare la RAI, venderla.
marzo 8, 2002