articolo collegato di Luca Ricolfi
Ci sono, in natura, tre strategie fondamentali per reagire a un pericolo: l’attacco, la fuga, la simulazione della morte. La tigre attacca, la gazzella fugge, il rospo – come molti altri animali, sia vertebrati sia invertebrati – finge di essere morto.
Forse non sarebbe inutile, per capire quel che ci sta succedendo, guardare a noi stessi con occhio più disincantato, come un etologo fa con gli animali, o un marziano farebbe se sbarcasse su questo nostro dilaniato pianeta. Leggendo il fiume di parole che è seguito alle stragi di Parigi, troveremmo difficile non accorgerci che la nostra reazione dominante, almeno in Italia, è quella del rospo.
C’è chi lo dice in modo sofisticato e indiretto, e c’è chi lo afferma esplicitamente, ma i capisaldi della nostra reazione si condensano in un unico messaggio di fondo.
Non perdiamo la calma, non spaventiamoci, non rinunciamo al nostro modo di vita, non imbarchiamoci in una guerra, non cambiamo i nostri (buoni) rapporti con i musulmani, non chiudiamo le nostre frontiere, non sottraiamoci al dialogo con l’Islam, non crediamo che quella in atto sia una guerra di religione. Una sorta di versione occidentale della imperturbabilità Zen.
È giustificata una simile reazione ai fatti di Parigi? In un certo senso sì, perché essa non fa che registrare uno stato di impotenza. Sappiamo benissimo che i cittadini delle nostre società opulente sono, da parecchi decenni (dalla fine della guerra del Vietnam, più o meno), indisponibili a sostenere i costi umani, economici e filosofici di una vera guerra. E capiamo perfettamente che l’unica reazione alla nostra portata è quella solita: varare qualche sanzione economica, colpire i pozzi di petrolio dei terroristi, rafforzare l’intelligence, mandare sul campo tecnologie e specialisti, formare una coalizione anti-terrorismo sotto l’egida dell’Onu, sperare che altri popoli meno civilizzati di noi ci levino le castagne dal fuoco mandando i loro soldati a morire contro i guerriglieri dello stato islamico.
Da questo punto di vista la strategia del rospo è perfettamente comprensibile. Se non puoi fuggire, se non puoi permetterti una vera guerra, quel che ti resta è la simulazione della morte. Che infatti, al di là dei proclami bellicosi, è la sostanza della nostra reazione.
Non c’è niente di strano, né di sbagliato, in tutto questo. Quello che è meno comprensibile, invece, è il racconto con cui accompagniamo questa reazione. Un racconto fatto di molte oneste verità, prima fra tutte la ricostruzione della catena di errori che le grandi potenze hanno commesso negli ultimi decenni, ma anche costellato di clamorose omissioni e di pericolosi fraintendimenti. Cose che un etologo o un marziano vedrebbero a occhio nudo, ma che sembrano sfuggire alla nostra sofisticata consapevolezza di interpreti di noi stessi.
Che cosa vedrebbe un etologo, o uno storico dell’umanità?
Intanto osserverebbe che, fra le specie animali, quella umana è l’unica i cui membri sono capaci di combattere, fino al sacrificio della vita, per entità astratte, non necessariamente di tipo religioso e non necessariamente negative (Dio, la Nazione, il Comunismo, la Democrazia, la Libertà, i Diritti umani). Da questo punto di vista il fanatismo non è una anomalia, ma una eventualità sempre all’ordine del giorno nella storia della nostra specie (leggere Yuval Harari per credere: Da animali a dei, Bompiani 2014).
Poi, forse, il nostro etologo, storico, o marziano che dir si voglia noterebbe che alcune di queste entità astratte hanno una pretesa universale, o nel senso che vengono (da chi le sposa) ritenute valide per tutta l’umanità, o nel senso che vengono ritenute meritevoli di essere imposte al resto del mondo. È il caso del comunismo prima degli accordi di Yalta (che sancirono la spartizione del mondo in sfere di influenza), di un paio di religioni importanti (cristianesimo e islam) ma, per certi versi, anche di alcune idee politiche generali (democrazia e diritti umani). Il nostro marziano, essendo appunto marziano e non terrestre, non sarebbe particolarmente sensibile al fatto che alcune di tali ideologie siano supportate da buoni e altre da pessimi sentimenti, ma noterebbe la vocazione interventista di tutte le ideologie universali. In un mondo globalizzato e interdipendente, l’adozione di simili ideologie porta inevitabilmente con sé la tendenza a immischiarsi nelle faccende degli altri popoli, poco importa se in nome di un aggressivo ideale di conquista politico-militare, o di un più benevolo istinto di colonizzazione culturale. Da questo punto di vista, marziano e non terrestre, Jihad e guerre umanitarie, propaganda religiosa e ideologia dei diritti umani, sono facce diverse del medesimo processo di disintegrazione del mondo. Un processo che si limitava a covare sotto la cenere finché c’erano le aree di influenza e vigeva la realpolitik, con il suo cinismo e la sua saggezza, ma che è divenuto ingovernabile quando, una trentina di anni fa, il mondo è diventato un unico palcoscenico, disponibile per le rappresentazioni di tutti.
Ma c’è soprattutto una cosa che stupirebbe il nostro osservatore sbarcato da Marte. Ed è il nostro, intendo di noi occidentali, fraintendimento del Corano. Lui, a differenza della maggior parte di noi, il Corano l’ha letto. E di esso si è fatto un’idea molto chiara.
Il Corano è un testo unitario, e molto più coerente di quanto possa apparire a prima vista (“nel Corano c’è tutto e il contrario di tutto”, si sente spesso dire erroneamente). Siamo noi, cittadini imbevuti di valori cristiani, che ci rifiutiamo di capirne l’unità, e preferiamo vederne un solo lato, quello benevolo e accettabile, per poterci confermare nella strategia del rospo. Quel lato esiste, per fortuna, ed è anche importante, ma riguarda i precetti cui i musulmani di buona volontà sono tenuti nei loro rapporti reciproci. Su questo piano hanno perfettamente ragione quanti sottolineano l’affinità fra il Corano e i valori cristiani, compresa la misericordia e il perdono.
Il problema è che esiste anche un altro lato, quello che prescrive il dovere di combattere i non credenti, e di imporre il culto di Allah a tutti, anche con la violenza.
Detto un po’ crudamente: un conto è la politica interna del Corano, un conto è la sua politica estera. I due lati non sono in conflitto, anche se a noi possono apparire contraddittori.
Esemplare, a questo proposito, è il versetto che più sovente viene citato per mostrare la coerenza fra l’insegnamento di Cristo e quello di Maometto, ovvero il comune rifiuto della violenza. Il versetto viene spesso riportato così: «Per questo abbiamo prescritto ai Figli di Israele che chiunque uccida un uomo sarà come se avesse ucciso l’umanità intera» (sura V, versetto 32)”.
Sfortunatamente, tuttavia, in questa forma il versetto è incompleto, in quanto amputato di un inciso essenziale. L’originale suona invece così:
«Chiunque uccida un uomo, che non abbia ucciso a sua volta o che non abbia sparso la corruzione sulla terra, sarà come se avesse ucciso l’umanità intera».
Nella visione cristiana, il divieto di uccidere è assoluto e incondizionato, qui invece prevede una macroscopica eccezione per coloro che hanno ucciso o «sparso la corruzione sulla terra». Il Corano è costellato di passi in cui si invita a combattere, anche con la violenza, contro i non credenti, siano essi adoratori di idoli (i politeisti), ebrei, cristiani, o semplicemente portatori di corruzione e di disordine. Quale debba essere il destino di coloro che portano la corruzione sulla terra è spiegato piuttosto chiaramente, oltreché in vari altri luoghi, nel versetto successivo secondo il quale la loro ricompensa è che «siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra».
Mi sono imbattuto per la prima volta in questi versi, e mi sono preso la briga di leggere il Corano, quando, una quindicina di anni fa, con altri colleghi sociologi mi trovai a occuparmi delle missioni suicide nel mondo (a me toccò la Palestina). E l’idea che ho maturato allora, quando il terrorismo (islamico e non) non era ancora spietato come oggi, è sostanzialmente questa: probabilmente facciamo bene, come cittadini di società largamente influenzate dal cristianesimo, a dare manforte all’interpretazione buonista del Corano, una interpretazione che sottolinea i contatti con il messaggio di Cristo, o si sforza di reinterpretare la Jihad come guerra puramente difensiva, o come combattimento interiore; ma facciamo male, molto male, a sottovalutare le formidabili difficoltà di quest’opera, pur meritoria, di rielaborazione del Corano.
Può piacerci o dispiacerci, ma il Corano sta lì, con i suoi versetti e le sue esortazioni, a disposizione di chiunque voglia leggerlo. E non bastano le libere traduzioni occidentali a cancellare la lettera di quei versi. Versi che, non dobbiamo mai dimenticarlo, si suppongono dettati direttamente da Allah al suo profeta, e come tali non sono facilmente riscrivibili, reinterpretabili, contestualizzabili. Esattamente il contrario di quel che capita con la tradizione cattolica, dove la reinterpretazione è la norma, perché la Chiesa pretende di essere l’unica depositaria della corretta interpretazione delle Scritture.
Ecco perché, a mio parere, il compito dell’Islam moderato è oggi assai difficile. La forza del terrorismo islamico riposa anche su una sorta di inversione fra ortodossia ed eresia: se prendiamo sul serio la lettera del Corano, i fanatici e i terroristi in nome di Allah possono apparire più ortodossi dei moderati, e il tentativo di questi ultimi di edulcorare il Corano può apparire vagamente eretico.
E noi? Non so se possiamo sfuggire alla strategia del rospo. Ma almeno potremmo, nella nostra imperturbabilità Zen, non ingannarci sulla difficoltà del compito che abbiamo di fronte. Perché non si tratta di leggere correttamente il Corano ma, al contrario, di aiutare gli islamici moderati a difendere la loro preziosa eresia.
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novembre 24, 2015