“Com’è possibile che nessuno si sia accorto che ci stava arrivando addosso questa crisi spaventosa?” La battuta rivolta da Elisabetta agli economisti della LSE resterà forse la più famosa del suo lungo regno: perché la domanda della Regina è la domanda regina. Quanti libri letti, quante pagine scritte, alla ricerca delle cause della più grave crisi del mondo occidentale dalla fine della seconda Guerra mondiale! Il proposito di governi repubblicani e democratici di dare una casa a tutti; la spinta a fare prestiti a tutti, anche ai NINJA (No Income No Job nor Asset); l’innovazione tecnologica per finanziarli, “impacchettando ed affettando” i debiti; i “nasi di Cleopatra” (se Jimmy Cayne non fosse restato a giocare a bridge, se Dick Fuld avesse dato retta a chi gli suggeriva di cambiare modello di business, se Alan Greenspan avesse ascoltato Raghuram Rajan e alzato i tassi nel 2005). Rajan, uno dei pochi che la crisi l’aveva prevista, perché aveva visto le “Fault lines”, le fratture nascoste che minacciano l’economia globale. (Terremoti finanziari, Einaudi 2012).
Dieci anni dopo, più che sulle cause, è sulle conseguenze della crisi che ci si interroga: i populismi ne sono l’eredità? Certo è stato un decennio di austerità; certo, molti di coloro che vengono visti come i colpevoli della crisi non ne hanno personalmente pagato i costi; certo . quelli che hanno votato per Trump in America, per Leave in Inghilterra e per Le Pen in Francia sono strati sociali “dimenticati”. Colpa dei sub prime, conseguenza di Lehman? Potrebbe essere una spiegazione troppo facile, e una lettura neppure molto corretta dei dati. Sul Financial Times per un Philip Stevens, secondo cui il populismo “riflette l’erosione dell’economia sociale di mercato, il declino di un capitalismo dove c’era posto anche per gli elettori ordinari”, Janan Ganesh ricorda che la fiducia degli americani nel Governo inizia a declinare negli anni ’60, con la guerra in Vietnam, si aggrava con il Watergate e non si ferma neppure con l’attacco alle torri gemelle. In Europa i problemi tra Nord e Sud precedono la nascita dell’euro, che anzi quei divari avrebbe dovuto alleviare. In Italia sono più di 20 gli anni da quando cresciamo meno degli altri. Quanto alla diseguaglianza, l’indice di Gini in Italia è sostanzialmente al livello degli anni ’80, nel mondo è diminuito, e nei paesi anglosassoni è vero che è aumentata la forbice tra ricchissimi e “poveri”, ma i redditi sono cresciuti per tutti.
Più che nei fatti, è nelle ideologie che si trova un possibile anello di congiunzione tra crisi del 2017 e populismo, almeno quello nostrano. Le accuse ai presupposti su cui si fonda il pensiero economico mainstream – la deregolamentazione dei mercati finanziari, l’ipotesi dell’efficienza del mercato dei capitali, l’indipendenza delle agenzie di rating, la validità degli algoritmi finanziari – hanno un capo in comune: la perdita di fiducia negli esperti. Parallelamente, “popolo puro contro élite corrotte” è il pilastro dell’ideologia dei populisti.
Tema controverso, quello degli esperti: l’elenco dei loro errori – in economia, in medicina, nelle aule dei tribunali, anche nella resistenza dei ponti – è sterminato; ma, se esperti sono quelli che hanno conoscenze che noi non abbiamo, di loro abbiamo bisogno. Come scegliere gli esperti a cui dare fiducia? Proclamarsi antielitisti non serve: ci vuole una teoria economica degli esperti. “Economica” se, con Roger Koppl (Expert failure, Cambridge University Press) definiamo “esperto” qualcuno che è pagato per dare la sua opinione; “economica” perché si fonda sulla coevoluzione della divisione del lavoro e della divisione della conoscenza. E’ una banalità dire che persone diverse conoscono cose diverse: dire invece che l’insieme delle conoscenze è disperso e diffuso è forse il maggior contributo di Hayek alla teoria economica. La conoscenza specifica associata ad ogni ruolo rende possibile la divisione sociale del lavoro, ne è la causa. Come la divisione sociale del lavoro, anche la divisione sociale della conoscenza è un ordine che sorge spontaneamente come conseguenza inintenzionale delle scelte di individui che perseguono i propri obbiettivi, non che seguono un progetto generale del sistema. Come la concorrenza per beni e servizi riduce la possibilità che il mercato sia monopolizzato a danno dei consumatori, così tutto quello che aumenta la concorrenza tra esperti – rivalità, ridondanza “ecologica”, libero accesso al mercato delle opinioni degli esperti – riduce il rischio di essere vittime dei loro errori.
E’ azzardato dire che il populismo sia la conseguenza diretta della crisi del 2007. Ma i populisti hanno fatte proprie molte di quelle che sono state indicate come cause della crisi (una per tutte le agenzie di rating). Se non c’è stata, come invece altrove, una certa perdita di fiducia nei meccanismi di mercato, è perché loro, quella fiducia, non l’hanno mai avuta. Non hanno fiducia nella concorrenza come principale garanzia del consumatore, credono nell’intervento dello Stato in un’economia sostanzialmente pianificata. Non credono che dalla divisione delle conoscenze nasca un ordine spontaneo, non hanno fiducia nelle élite, ma hanno bisogno delle competenze degli esperti, pronti, per procurarsele, a nazionalizzare le aziende dove lavorano. In fondo non credono al pluralismo: “uno vale uno” ne è esattamente il contrario. Potrebbe diventare il contrario anche della democrazia.
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