di Franco Debenedetti e Alessandro Penati
Analisi paradossale e sarcastica di due economisti
Il piano di Mustier è stato finalmente smascherato. E ora è possibile il passo avanti che sani il vulnus delle privatizzazioni e del mercatismo all’origine di tutti i problemi dell’economia italiana – stagnazione, disoccupazione, debito pubblico, diseguaglianze e disagio sociale. Mercato e capitalismo hanno fallito. Fortunatamente lo Stato ha resistito alle pressioni di chi voleva costringerlo a vendere ai privati gioielli come Eni, Snam, Saipem, Terna, Fincantieri, Finmeccanica, Italgas, Enel, Rai, Fs, Anas, o come tutto il patrimonio delle aziende ex municipali per fortuna rimaste nelle mani degli Enti Locali, e che costituiscono la punta di diamante della nostra green economy quali Iren, A2A, Acea Acsm-Agam, Hera, Ascopiave.
Che c’entra Mustier? Nei suoi tre anni di gestione ha venduto partecipazioni e attività per 13miliardi e bruciato un aumento di capitale da 14 al solo scopo di sostenere in titolo. Adesso osteggiava la fusione con un’altra banca in Italia che avrebbe creato un grande gruppo: avrebbe voluto invece scindere le attività estere di Unicredit per poi magari convolare a nozze con Société Générale o Commerzbank. Un’altra nostra grande impresa sarebbe finita in mani straniere, dopo che le attività in Italia erano state spolpate.
Ma per fortuna è arrivato Giancarlo Padoan come Presidente designato: l’uomo politico di lungo corso; l’ex-ministro, anzi il ministro che aveva orchestrato il salvataggio pubblico di Mps e si era impegnato a far scendere lo Stato in minoranza nella banca senese entro il 2022; l’ex deputato che, per attuare le indicazioni del suo dante causa aveva rinunciato a difendere gli interessi di chi gli aveva dato il voto. La sola sua presenza in Consiglio ha catalizzato la sfiducia che ha indotto Mustier a dimettersi: la strada per conquistare Mps è ormai spianata.
Vero, ci sono ancora tanti dettagli da mettere a posto: dettagli economici come la dote di capitale per Mps, il nodo sofferenze, la garanzia per le richieste di risarcimento, l’ammontare dei deferred tax assets e badwill su cui poter contare; e dettagli politici, quali il desiderio dei M5S di avere la banca che era stata sottratto allo storico protettorato della sinistra. Ma poco importa: tramite la fusione carta contro carta di Mps con Unicredit, lo Stato diventerà uno dei maggiori azionisti della nuova banca, e insieme alle Fondazioni bancarie di Torino e Verona ne acquisirà il controllo. Così il vecchio Credito Italiano e Banca di Roma (chi può dimenticare le BIN, banche di interesse nazionale?) improvvidamente privatizzate ritorneranno nell’orbita pubblica.
Dopo la mossa ardita di questo Governo che, sfidando la Commissione, ha nazionalizzato la Popolare di Bari per rinverdire i fasti della Cassa del Mezzogiorno, si profila un grande ritorno dello Stato nelle banche reso possibile dalla fusione Unicredit e Mps, invertendo la stagione delle privatizzazioni selvagge che Bce e la Commissione Europea, braccio armato del capitale internazionale, ci avevano imposto.
Grande merito di questo Governo è perseguire con ammirevole continuità e perseveranza l’obiettivo di sanare il vulnus delle privatizzazioni riportando tutto il possibile sotto l’influenza dello Stato: la vecchia (perché vecchia?) Italsider, strappata dalle grinfie dei Riva e degli indiani; Alitalia tornata stabilmente (?) pubblica; Borsa Italiana liberata dagli interessi dei fondi stranieri; presto Autostrade (perché non anche Aeroporti di Roma?) sottratta alle mani sporche di sangue dei Benetton; anche quella Telecom Italia che fu la madre di tutte le privatizzazioni è prossima a capitolare e la rete, vero asset strategico per il Paese, ritornerà sotto controllo pubblico grazie a Cassa Depositi e Prestiti. Purtroppo per l’olio Bertolli, i pelati Cirio e i panettoni Alemagna, vanto della nostra terra, è troppo tardi: privatizzati dalla SME sono stati per sempre distrutti dal capitalismo avido.
Conosciamo la critica: la politica sta ricostruendo l’Iri per rimpossessarsi dell’economia, come nella prima repubblica. Falso. Per capirlo basta analizzare l’abile mossa del nostro Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, che ha chiamato a fungere da braccio operativo per gestire i 200 miliardi del Recovery Fund i vertici delle “sue” di aziende di Stato, oltre a i 300 esperti che egli selezionerà per aiutarli.
Non sarà la vecchia politica a comandare nell’economia: stavolta sarà un gruppo di validi manager pubblici a comandare alla politica. Il meglio che il Paese può offrire, sotto l’illuminata guida del Presidente del Consiglio che, per ogni evenienza ha anche la delega ai servizi segreti per proteggere le nostre imprese dalle mire del capitale straniero. Si apre finalmente la possibilità di costruire un futuro di crescita senza diseguaglianze dopo gli anni dell’austerità eterodiretta e del liberismo sfrenato.
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