Intervista a Il Giornale
Franco Debenedetti, lei è stato parlamentare dell’Ulivo ma non voterà Pd alle elezioni europee. Perché?
«Prima di tutto, diciamo che darò comunque un voto all’opposizione. Il voto per il Pd in questo momento non mi desta alcun entusiasmo. L’alternativa di votare uno come Antonio Di Pietro è per me improponibile. E quindi voterò per la lista Bonino-Pannella».
Perché il Pd non le suscita entusiasmo?
«Non tanto per le posizioni politiche dei vertici o per le vicende più recenti, che se mai dovrebbero indurre ad una certa solidarietà politica, per dargli una mano. Ho deciso di non votarli soprattutto per alcune scelte fatte in occasione di queste elezioni, e per le motivazioni che stanno dietro di esse. Parlo in primo luogo delle candidature».
Può farci un esempio?
«Prendiamo Sergio Cofferati. Non ho nulla contro di lui, personalmente, lo conosco e lo stimo. Ma ce l’ho con le ragioni per cui lo candidano. Sperano che porti molti voti, e ovviamente è del tutto legittimo. Il problema è quali voti cercano di inseguire. Non quelli che prenderà per la sua esperienza di sindaco di Bologna, o per le sue prese di posizione più recenti. No. Lo candidano per cercare i voti di chi ricorda il capo della Cgil del Palazzetto dello Sport, quello che D’Alema chiamò “dottor Cofferati” e che si oppose, mettendo sul piatto tutto il peso della sua organizzazione, alla riforma delle pensioni. Insomma, il Pd insegue i voti non “per”, ma “contro” le riforme. Ma allora con questo Pd si potrà innalzare l’età della pensione, liberalizzare il mercato del lavoro, superare l’articolo 18? Non credo proprio».
E il suo voto per i radicali è una scelta in questo senso?
«Il mio voto alla lista Bonino è esattamente un segnale per l’opposizione, perché si batta per le riforme che servono al Paese. Ho letto il libro sulla crisi della democrazia italiana preparato dai radicali e mi è venuto da pensare: accidenti, ne han fatta di roba. Hanno avuto inventiva, costanza nel perseguire le riforme, capacità di smuovere l’opinione pubblica anche con risorse limitate».
È appena uscito un suo libro, «La guerra dei 30 anni», in cui critica un certo antiberlusconismo della sinistra, l’uso politico della questione televisiva e del conflitto d’interessi. Qualcosa è cambiato?
«In realtà quella “guerra” è finita al Lingotto, quando Walter Veltroni dichiarò la fine dell’antiberlusconismo come strategia politica. Certo la polemica continua, anche virulenta, con le armi e gli argomenti di cui sono pieni i giornali. Ma l’antiberlusconismo con l’elmetto, unico collante ideologico del centrosinistra fino al governo Prodi, è finito con la sua caduta».
Sulla vicenda Fiat-Opel il Pd ha attaccato duramente il governo per non essere intervenuto. Da economista è d’accordo?
«Il governo esce bene da quella storia. Se interveniva che poteva offrire? O soldi o la chiusura di qualche stabilimento italiano. Ora, di soldi non ne abbiamo e qualche stabilimento andrebbe anche chiuso, magari, ma certo non può essere il governo a offrirlo. D’altronde la vicenda è stata decisa da una telefonata tra il capo della prima potenza economica mondiale, Obama, e la capa della terza, Merkel: noi cosa dovevamo andare a dire? Per una volta, il governo ha fatto esattamente quel che andava fatto: cioè niente».
Come giudica il comportamento del governo Berlusconi rispetto alla crisi economica?
«In un Paese col debito pubblico che abbiamo noi, con una struttura produttiva fatta di piccole e medie aziende e un sistema di ammortizzatori come il nostro, ha fatto bene a seguire una politica in cui ha speso più parole che soldi, senza imbarcarsi in piani di stimolo economico sulla cui efficacia ho molti dubbi. Il governo ha avuto una navigazione accorta ed è stato tempestivo e deciso nello scongiurare una possibile crisi bancaria. Con una grave mancanza però».
Quale?
«L’idea che ne usciremo più forti senza fare subito le riforme come le pensioni, il mercato del lavoro o i servizi pubblici locali è sbagliatissima. Non capisco perché Tremonti e Sacconi frenino: non farle ora avrà un costo gigantesco, perché per riprendere a crescere quando la crisi sarà finita serve flessibilità, non rigidità».
giugno 3, 2009