Il nucleo duro al bivio tra Opa e pubblic company

marzo 2, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


È diventato un luogo comune: l’Opa su Telecom ha cambia to il volto al capitalismo italiano. Ma i luoghi comuni, quando si usurano, bloccano il ragionamen­to; mentre bisognerebbe chiedersi: lo cambia, ma in che senso?

Contro la banalità dei luoghi co­muni serve la provocazione del pa­radosso. Come quello proposto da Francesco Giavazzi (Utile lezione da un assalto, Corriere della Sera del 24 febbraio): egli autorevolmen­te nota che è stato il Tesoro ad imporre la scelta di Franco Bernabè, e che è di nomina governativa il più numeroso gruppo di consi­glieri di amministrazione. Da qui la sorprendente conclusione: si è «di fatto cancellata la privatizzazione» di Telecom. Se è così, allora l’Opa abbia o meno successo, va vista come un episodio della storia delle privatizzazioni italiane.

Questa, come è noto, si è svolta tra due polarità: public company o nocciolo duro? Per Comit e Credit, Prodi volle la prima soluzione: e finì invece come sappiamo. Fu proprio al fine di scongiurare il rischio che il nocciolo duro si formasse fuori dal Controllo del governo, che per Tele­com lo si volle seppure a fatica costi­tuire. Il primo round si concluse a favore degli azionisti privati, e Gui­do Rossi lasciò la presidenza pro­prio per il dissenso sugli aspetti di corporate governance, per non esse­re riuscito a realizzare «quel sogno negato di un manager forte» come confessò a Bernardo Valli nella pri­ma intervista dopo le sue dimissioni (La Repubblica del 5 gennaio 1998). Guido Rossi invita ad «accettare la formula manager forti, ossia indipen­denti, e padroni deboli, ossia discre­ti, che li lascino lavorare».

Venne la gestione Rossignolo, che attirò su di sé un inusuale volume di critiche. Queste investi­rono anche gli azionisti che lo ave­vano scelto, e il Tesoro che a que­gli azionisti aveva “regalato” il gio­iello nazionale: dunque implicita­mente anche la modalità di privatizzazione.

È quindi più che una possibilità che il Tesoro veda con favore per Telecom un futuro da “public com­pany” modello Rossi, che non a ca­so ha assunto il comando delle ope­razioni di difesa dall’Opa.

Questa delle “public company” è in realtà una mistificazione: perché si usa quel nome per evocare le gran­di aziende ad azionariato diffuso americane, mentre si connotano as­setti proprietari profondamente diver­si. Mark J. Roe, che più con il titolo che con il contenuto del suo «Strong managers weak owners» aveva ispi­rato a Guido Rossi le riflessioni so­pra ricordate, ha sviluppato un mo­dello esplicativo della scarsa diffusio­ne delle public company nell’Europa continentale: sono ragioni che atten­gono ai valori e vanno alle radici dell’organizzazione sociale, quelle per cui le democrazie sociali europee e le public company di tipo america­no sono scarsamente compatibili: «social democracies and the Ameri­can-style public firm mix badly». Questo perché nelle società organiz­zate sul modello della compartecipa­zione e della concertazione, è più facile introdurre regole di corporate govenance che proteggano gli azio­nisti di minoranza contro la rapacità dei grandi azionisti che non regole che evitino che un management indi­pendente metta in atto comportamen­ti collusivi con i dipendenti del­l’azienda. L’incontro di mercoledì scorso tra Franco Bernabè e i sinda­cati conferma con impressionante  precisione il modello del professore della Columbia Law.

Nel modello di “public company” all’italiana, sostituito l’azionariato diffuso al fondo di dotazione, am­pliato lo spazio di libertà dei manager rispetto alla supervisione eserci­tata della proprietà, il rischio è che sia ai Nuovi Mattei che vengano consegnati gli spazi economici che le privatizzazioni avrebbero dovuto restituire ai privati. Franco Bernabè è stato esplicito nella sua intervista (Il Sole 24 Ore del 27 febbraio): «sarebbe grave se in futuro un grup­po di azionisti con una quota impor­tante contasse più degli altri»: dun­que neppure il nocciolo duro che l’ha nominato Amministratore dele­gato. Il giorno dopo sul Corriere anch’egli, come Rossi, chiede che lo si «lasci lavorare»: e minaccia di chiedere i danni a chi, esercitando un proprio diritto garantito dalla leg­ge perché utile al mercato, indice un’Opa: gli fa perdere tempo.

«Il capitalismo italiano non sarà più lo stesso». Potrebbe esserlo in un senso affatto diverso da quello cui rimanda il luogo comune, nel senso che gli assetti diventano non più contendibili, ma più immutabili, e i «diritti dinastici» non meno sicu­ri ma meno rilevanti. La scalabilità di Telecom minaccia la loro posizio­ne negli assetti dell’azienda, ma assi­cura il loro ruolo negli assetti del capitalismo italiano. I privati dell’at­tuale nocciolo duro si trovano tra due fuochi: da un lato sfidati da Colaninno e dai capitali internazio­nali che è riuscito a mobilitare. dall’altro sospinti verso il ruolo che Guido Rossi lascia loro nel suo mo­dello di “public company”. La parti­ta che si è aperta è decisiva, e decisi­vo non sarà tanto l’esito della sfida portata dall’esterno, quanto di quel­la che si gioca- all’interno di Tele­com: se i privati accettassero di ren­dere la società di fatto non scalatine. come Bernabè li aveva inviati a fare prima che Consob imponesse le garanzie, e come potranno nuovamen­te fare se l’Opa non avrà successo, si accorgerebbero ben presto di ave; mancato l’obbiettivo di riportare nel­la sfera dell’iniziativa privata i vec­chi monopoli statali. Per loro potrebbe finire per esserci solo un ruolo marginale di prestatori di capitale ad aziende di fatto pubbliche, nelle ma­ni di manager intoccabili.

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