È diventato un luogo comune: l’Opa su Telecom ha cambia to il volto al capitalismo italiano. Ma i luoghi comuni, quando si usurano, bloccano il ragionamento; mentre bisognerebbe chiedersi: lo cambia, ma in che senso?
Contro la banalità dei luoghi comuni serve la provocazione del paradosso. Come quello proposto da Francesco Giavazzi (Utile lezione da un assalto, Corriere della Sera del 24 febbraio): egli autorevolmente nota che è stato il Tesoro ad imporre la scelta di Franco Bernabè, e che è di nomina governativa il più numeroso gruppo di consiglieri di amministrazione. Da qui la sorprendente conclusione: si è «di fatto cancellata la privatizzazione» di Telecom. Se è così, allora l’Opa abbia o meno successo, va vista come un episodio della storia delle privatizzazioni italiane.
Questa, come è noto, si è svolta tra due polarità: public company o nocciolo duro? Per Comit e Credit, Prodi volle la prima soluzione: e finì invece come sappiamo. Fu proprio al fine di scongiurare il rischio che il nocciolo duro si formasse fuori dal Controllo del governo, che per Telecom lo si volle seppure a fatica costituire. Il primo round si concluse a favore degli azionisti privati, e Guido Rossi lasciò la presidenza proprio per il dissenso sugli aspetti di corporate governance, per non essere riuscito a realizzare «quel sogno negato di un manager forte» come confessò a Bernardo Valli nella prima intervista dopo le sue dimissioni (La Repubblica del 5 gennaio 1998). Guido Rossi invita ad «accettare la formula manager forti, ossia indipendenti, e padroni deboli, ossia discreti, che li lascino lavorare».
Venne la gestione Rossignolo, che attirò su di sé un inusuale volume di critiche. Queste investirono anche gli azionisti che lo avevano scelto, e il Tesoro che a quegli azionisti aveva “regalato” il gioiello nazionale: dunque implicitamente anche la modalità di privatizzazione.
È quindi più che una possibilità che il Tesoro veda con favore per Telecom un futuro da “public company” modello Rossi, che non a caso ha assunto il comando delle operazioni di difesa dall’Opa.
Questa delle “public company” è in realtà una mistificazione: perché si usa quel nome per evocare le grandi aziende ad azionariato diffuso americane, mentre si connotano assetti proprietari profondamente diversi. Mark J. Roe, che più con il titolo che con il contenuto del suo «Strong managers weak owners» aveva ispirato a Guido Rossi le riflessioni sopra ricordate, ha sviluppato un modello esplicativo della scarsa diffusione delle public company nell’Europa continentale: sono ragioni che attengono ai valori e vanno alle radici dell’organizzazione sociale, quelle per cui le democrazie sociali europee e le public company di tipo americano sono scarsamente compatibili: «social democracies and the American-style public firm mix badly». Questo perché nelle società organizzate sul modello della compartecipazione e della concertazione, è più facile introdurre regole di corporate govenance che proteggano gli azionisti di minoranza contro la rapacità dei grandi azionisti che non regole che evitino che un management indipendente metta in atto comportamenti collusivi con i dipendenti dell’azienda. L’incontro di mercoledì scorso tra Franco Bernabè e i sindacati conferma con impressionante precisione il modello del professore della Columbia Law.
Nel modello di “public company” all’italiana, sostituito l’azionariato diffuso al fondo di dotazione, ampliato lo spazio di libertà dei manager rispetto alla supervisione esercitata della proprietà, il rischio è che sia ai Nuovi Mattei che vengano consegnati gli spazi economici che le privatizzazioni avrebbero dovuto restituire ai privati. Franco Bernabè è stato esplicito nella sua intervista (Il Sole 24 Ore del 27 febbraio): «sarebbe grave se in futuro un gruppo di azionisti con una quota importante contasse più degli altri»: dunque neppure il nocciolo duro che l’ha nominato Amministratore delegato. Il giorno dopo sul Corriere anch’egli, come Rossi, chiede che lo si «lasci lavorare»: e minaccia di chiedere i danni a chi, esercitando un proprio diritto garantito dalla legge perché utile al mercato, indice un’Opa: gli fa perdere tempo.
«Il capitalismo italiano non sarà più lo stesso». Potrebbe esserlo in un senso affatto diverso da quello cui rimanda il luogo comune, nel senso che gli assetti diventano non più contendibili, ma più immutabili, e i «diritti dinastici» non meno sicuri ma meno rilevanti. La scalabilità di Telecom minaccia la loro posizione negli assetti dell’azienda, ma assicura il loro ruolo negli assetti del capitalismo italiano. I privati dell’attuale nocciolo duro si trovano tra due fuochi: da un lato sfidati da Colaninno e dai capitali internazionali che è riuscito a mobilitare. dall’altro sospinti verso il ruolo che Guido Rossi lascia loro nel suo modello di “public company”. La partita che si è aperta è decisiva, e decisivo non sarà tanto l’esito della sfida portata dall’esterno, quanto di quella che si gioca- all’interno di Telecom: se i privati accettassero di rendere la società di fatto non scalatine. come Bernabè li aveva inviati a fare prima che Consob imponesse le garanzie, e come potranno nuovamente fare se l’Opa non avrà successo, si accorgerebbero ben presto di ave; mancato l’obbiettivo di riportare nella sfera dell’iniziativa privata i vecchi monopoli statali. Per loro potrebbe finire per esserci solo un ruolo marginale di prestatori di capitale ad aziende di fatto pubbliche, nelle mani di manager intoccabili.
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marzo 2, 1999