Come comportarsi quando si decide di uscire da una grande società
La Banca di Roma ha una struttura direzionale molto forte”, ha dichiarato il governatore Antonio Fazio dopo la notizia delle dimissioni di Carlo Salvatori da amministratore delegato della Banca di Roma: le sue parole sono state ascoltate con grande attenzione e con qualche sorpresa. Prima di tutto perché dosare i propri interventi, pesare col bilancino da farmacista ogni aggettivo è, per i banchieri centrali, una seconda natura. Poi perché la Banca d’Italia è anche Autorità del sistema bancario: il suo quindi è un giudizio del vigilante sul vigilato. Infine per la sproporzione tra l’eccezionalità dell’intervento e il fatto che l’ha provocato, le dimissioni di un amministratore in carica da neppure sei mesi.
La dichiarazione di Fazio faceva risaltare ancor più il silenzio del vertice della Banca di Roma, che per primo avrebbe dovuto difendere le proprie strutture, e che invece si è limitato a dare la notizia.
Lasciati ad altri i pettegolezzi sull’antica familiarità tra i vertici di Banca d’Italia e Banca di Roma, qualcuno si è chiesto se non fossero state meno futili ragioni a consigliare un intervento al più alto livello possibile. Magari evitare che Banca di Roma dovesse sopportare un costo ancora più alto per finanziarsi sul mercato interbancario, e quindi che si abbassasse ancor più la redditività dell’istituto capitolino? Il suo ROE ne fa il fanalino di coda delle banche italiane, per non parlare di quelle europee: a causa degli aggressivi piani di ammortamento delle partite incagliate, si giustificano a Roma. Certo è che il persistere di un’area di debolezza in una banca situata in uno dei crocevia più delicati della finanza italiana non è solo un problema in sé, ma anche per il processo di consolidamento del sistema che il Governatore segue in prima persona.
Non aveva potuto invece – ovviamente e giustamente – contare sul soccorso di nessuna autorità Telecom Italia, quando due suoi consiglieri, qualche settimana prima, avevano dato le dimissioni. La coincidenza induce a considerazioni più generali: come comportarsi quando si dimettono amministratori di grandi società quotate? In Telecom prima si è dimesso Angelo Benessia, nominato dai fondi di investimento, poi Domenico Siniscalco, nominato dal Tesoro. “ Se il loro vuole essere un gesto di disapprovazione, sbagliano – è il severo commento di Alessandro Penati sul Corriere della Sera -: avrebbero dovuto utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione per esercitare il controllo sulla gestione, verbalizzando il dissenso, attivando il collegio sindacale, ricorrendo alla Consob, ed eventualmente ai soci, con una relazione di minoranza in sede di approvazione del bilancio. Non si può far finta di niente e alimentare polemiche sui giornali.” Le privatizzazioni hanno ampliato il nostro mercato finanziario, la legge Draghi e il codice Preda l’hanno profondamente modificato: è cambiato il mondo in termini di corporate governance, di diritto all’informazione. Chi assume incarichi prestigiosi in grandi aziende assume impegni verso azionisti e impresa. Dimettersi da certe posizioni non è come andarsene da un club o decidere di cambiare l’università in cui si insegna: se ci sono ragioni personali, le si deve dimostrare in modo da dissipare ogni dubbio che ne nascondano altre. E se altre ragioni ci sono, le carte non devono restare nei cassetti dei dimissionari, ma devono essere squinternate di fronte ad amministratori e ad azionisti: a loro, prima che ai magistrati, e in modo completo, sicché tutti trovino lì tutte le informazioni.
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giugno 20, 2001