L’uomo è Oleg Mihailovic Scimanov, il business sono i biscotti. L’azienda che Schimanov dirige si chiama Bolshevik, e sarà, così pare, la prima azienda russa ad essere privatizzata. Già il complesso industriale è un pezzo di storia russa: la crescita di Mosca ha inglobato l’imponente gruppo di edifici, costruito 140 anni fa: ora si trovano in piena città, lungo una delle grandi arterie di scorrimento. La fabbrica occupa oltre 2000 persone, che producono quasi 300 tonnellate al giorno di biscotti, crackers e dolci.
Nonostante il layout dei capannoni, tutti a più piani, sia un incubo per chi ha un minimo di attenzione alla logistica industriale, la produzione è ordinata, il ritmo di lavoro intenso. Al solito, si supplisce con l’abbondante mano d’opera alle carenze di manutenzione e di ricambi. Nei cortili cercano di districarsi i camion che ritirano la merce: le risposte sul sistema di fatturazione mi paiono evasive, ho l’impressione che buona parte della merce sia pagata in contanti. Già negli impianti produttivi si possono ricostruire i successivi cicli di investimento, le parole d’ordine dei vari piani economici: questa linea di produzione è dell’epoca della Nep, questa della ricostruzione, quella del rilancio krusceviano dei consumi. Le ultime linee, fornite da un’azienda di Verona, si devono al ciclo gorbacioviano.
Viene spontaneo pensare a quante volte la retorica dei piani, delle parole d’ordine sarà stata lanciata, diffusa, ripetuta tra queste macchine, a questa gente. Le decine di riunioni di fabbrica, per motivare, per richiedere sforzi verso obiettivi che promettevano benessere e felicità in un futuro radioso sempre spostato un poco più in là.
Nel percorso per salire nell’ufficio del direttore conto almeno cinque giganteschi ritratti di Lenin, che direi di epoca staliniana, l’agiografia della mascella volitiva e dello sguardo verso l’alto. Sarà per questo, sarà per l’orgoglio (giustificato d’altronde anche dal punto di vista mar-keting) di mantenere un nome così… caratteristico, ma mentre Oleg Mihailovic mi spiega le modalità del processo di privatizzazione, non riesco a levarmi di dosso un senso di “deja vu”. La stessa impressione avevo provato parlando con i funzionari dei ministeri, personaggi sempre uguali, che nel corso di riunioni che si svolgono sempre con lo stesso rituale, recitano il nuovo verbo con la solita inossidabile certezza. E questo nonostante i mutamenti avvenuti negli ultimi anni siano percepibili in tanti aspetti della vita di Mosca. Un accento nuovo sento quando il direttore mi fa vedere í reparti nuovi, che ha costruito in sopraelevazione: ne parla come di un’iniziativa sua, non come della realizzazione di un piano assegnato. Nuovo, o almeno insolito, il ritmo di lavoro. Temo che ci sia del nuovo, e ahimè non positivo, nei canali distributivi alimentari dai padroncini dei camion che ho visto nei cortili. Secondo il progetto di privatizzazione tra gruppo dirigente e maestranze riceveranno il 51 per cento delle azioni: il resto risulterà dalla conversione dei vaucher. Ma distribuire capitale non è creare capitale. E senza capitale in valuta pregiata, i nuovi reparti costruiti resteranno vuoti. La soluzione ovvia, realizzare il valore dei terreni pregiati rilocalizzando la fabbrica, vien dichiarata impraticabile: non si sa a chi vendere nè da chi comprare il terreno o a chi far costruire i nuovi impianti. Suggerisco una strategia alternativa, diversificare al mas simo prodotti e mercati, ed alzare i prezzi correndo anche il rischio di vendere di meno: non è convinto per le difficoltà che riesco ad immaginare o perché non riesce ad uscire dalla logica secondo cui l’aumento della produzione è comunque l’unico obiettivo da perseguire?
L’economia russa, nonostante la sua dimensione e la sua macchinosità, ha una struttura estremamente semplice, data la pratica assenza di attività di servizio e di mediazione tra la produzione e la vendita. È per questo motivo che gli argomenti di cui avevo poco prima parlato in chiave macroeconomica con Volskji, il presidente del gruppo di manager di aziende di Stato che si candida a diventare (o a restare) la nuova classe industriale del paese, trovano così immediata, puntuale corrispondenza al livello microeconomico di impresa: il problema della proprietà e della stabilità del gruppo dirigente; la vaghezza dell’impianto legale e dei rapporti contrattuali; il dilemma tra l’efficienza che genera disoccupazione e il produrre comunque che genera inflazione; i fenomeni di distorsione che si creano nella distribuzione quando, in carenza di offerta, un settore pubblico dominante coesiste con un settore competitivo. Ma soprattutto il fatto che il risparmio (in rubli) non riesce a trasformarsi in investimento produttivo, dato che questo richiede praticamente sempre capitale in valuta pregiata. I Mc Donald o i Pizza Hut a Mosca sono macchine da far rubli, e anche Oleg Mihailovic non avrebbe difficoltà ad alzare i prezzi. La rottura avviene quando l’economia in rubli si incontra con l’economia in dollari. La mano invisibile funziona solo per i circuiti semplici, dal kolkoz ai forni del Bolshevik, al mercato. Per il resto si aspetta la mano visibilissima degli aiuti occidentali. E poi si viene a sapere, e neppure viene negato, che una buona parte dei dollari ricavati dalle vendite di materie prime rimane all’estero, depositata in banca. La dura strada al capitalismo offre anche più facili scorciatoie.
gennaio 1, 1993