La Volkswagen aveva avuto un pessimo 1992, perdeva circa 400 marchi per ogni Golf venduta. Per cercare di ribaltare la situazione, era stato nominato presidente il capo della divisione Audi, Ferdinand Piech. Fu lui a reclutare, quale responsabile dei metodi di produzione e degli acquisti, un ingegnere basco un po’ eccentrico mosso da feroce determinazione, José Ignazio López, all’epoca capo degli acquisti della General Motors.
Cominciava così un «giallo industriale». tanto appassionante quanto inquietante, tutt’altro che concluso, che può farci riflettere, anche in Italia, sulle finalità e i metodi di gestione di un’impresa.
Lopez – che si era già guadagnato il nomignolo di «strangolatore di Ruesselbeim», eloquente descrizione dei metodi impiegati con i fornitoti – era riuscito a fare della Opel (marchio di proprietà General Motors) il più efficiente produttore tedesco di automobili. Ma subito dopo il suo passaggio alla Volkswagen esplode lo scandalo: la multinazionale americana lo accusa di aver trafugato documenti riservati su nuovi modelli di vetture, costi di produzione e di componenti. Spionaggio industriale e concorrenza sleale, insomma.
Il presidente Piech difende a spada tratta il suo manager e accusa gli americani di attacco ai danni dell’industria tedesca. Questi ultimi rispondono per le rime. L’affaire ormai trascende gli ambiti aziendali: oltre a svariate procure tedesche, il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha iniziato una sua inchiesta; l’Fbi indaga; il ministro dell’Economia Rexrodt incontra i capi dell’Opel per cercare di abbassare il livello dello scontro; il Land della Bassa Sassonia, che possiede il 20 per cento delle azioni Volkswagen, oscilla tra prese di distanza e imbarazzate solidarietà.
Lo spionaggio industriale, se si dovesse dimostrare che di questo si tratta, si verifica normalmente a livelli assai più bassi nelle gerarchie industriali. Bisogna riandare a quello dell’Hitachi ai danni dell’Ibm per trovare qualcosa di lontanamente paragonabile.
Al di là dell’esito delle vicende giudiziarie, quindi, si impongono alcune considerazioni più generali: il dibattito sul capitalismo e le sue regole val bene uno sguardo oltre i nostri confini.
Piéch e López sono personaggi di lunga esperienza maturata in posizioni di grande spicco e responsabilità: com’è possibile che abbiano commesso quelle che nella migliore delle ipotesi sono gravi leggerezze ed imprudenze? Che cosa è che in un manager tramuta la necessaria ferma determinazione in senso di onnipotenza, nel credere di poter trascendere quanto meno i limiti formali della correttezza? Sappiamo che la drammaticità dei problemi e l’urgenza di porvi mano richiedono assoluta concentrazione sull’obbiettivo: ma la vicenda López, come del resto in Italia la vicenda Ferruzzi, inducono a chiedersi se sia davvero inevitabile che tale determinazione si traduca in spregiudicatezza.
Superlopez (è il titolo di un’agiografia che López ha ispirato) avrebbe fatto risparmiare alla Gm non già i 2 miliardi di dollari che gli vengono accreditati, ma il quintuplo e secondo Piéch in appena cinque mesi alla Volkswagen avrebbe già portato risparmi per 700 milioni di marchi. Leadership e carisma sono indispensabili in momenti di grandi trasformazioni: ma siffatte personalizzazioni l’esagerata e sovente ingiustificata enfasi sul con
tributo individuale, oltre ad essere un pò grottesche quando riferite a organizzazioni così grandi e complesse non contribuiscono anch’esse a creare il senso di onnipotenza, per cui tanti si sono persi?
A parte le considerazioni generali su necessità dei fini e liceità dei mezzi, sono proprio i metodi specifici adottati da López per ottenere i suoi folgoranti risultati che vanno messi in discussione. Tutte le industrie dell’auto hanno drammatici problemi di riduzione di costi, sia dal lato dell’efficienza produttiva propria sia da quello dei prezzi dei componenti acquistati: entrambi, ed è la lezione giapponese, passano attraverso uno stretto coinvolgimento di dipendenti e fornitoti, in un processo di miglioramento continuo. Come si conciliano questi obiettivi con la teatralità dei contratti stracciati in faccia ai fornitori, con l’ergonomia perseguita maniacalmente e senza apparente preoccupazione per i costi umani delle ristrutturazioni, con l’esibire quella che Edward Heath chiamava «la maschera odiosa del capitalismo»?
Per ora quello che resta è il danno grave all’immagine dell’azienda, e paradossalmente, proprio nel caso in cui le accuse dovessero rivelarsi infondate o non adeguatamente provate, alla credibilità delle persone che lo hanno in fondo così inutilmente provocato. Ma soprattutto; oggi che tanti devono subire ed accettare le dure regole del mercato e della concorrenza tra imprese, ogni perdita di credibilità del sistema, ogni appannamento alla trasparenza delle sue regole, provoca un danno che ci riguarda tutti.
agosto 23, 1993