di Geminello Alvi
In queste ancora calme settimane di fine estate s’è avviato sui giornali un utile dibattito sulla economia sociale di mercato. E già l’aggiunta della parola sociale fa intendere al nostro lettore come si sia mitigata quella mitizzazione del mercato astratto che ci tormenta da anni. Il ministro Tremonti intende farne uno dei temi d’azione di cui si discuterà a settembre. La qual cosa un po’ turba Mario Monti, il quale però, con ogni suo prudente garbo, paventa il discredito del liberismo. Teme che dietro la critica alle follie globalizzanti si celi un ritorno al mercantilismo. Ovvero a più dazi, arbitri del potere statale. Michele Salvati a sua volta da una parte approva il timore di Monti, dall’altra rimprovera Tremonti di poca socialità. Di non aver ridotto abbastanza le tasse ai redditi meno elevati. Insomma Monti o Salvati l’esito è uguale: per fare più sociale l’economia di mercato si dovrebbero dosare redistribuzione statale e controlli: si dovrebbe usare lo Stato per lenire i guai del mercato globale, ma non troppo. Ecco la conclusione che si ricava a leggerli, e che con franchezza, mi pare un po’ troppo poco.
Se ne ha l’impressione di rimasticaticcio, di giri di parole per parare il colpo, ricondurre il tema ai soliti liberismi di sinistra. Negli anni ’70, l’economia era ridotta dalle sinistre a lotta per ridistribuire il reddito, e più Stato. Queste aberrazioni si sono negli anni corrette, ma a dosi di conformismo liberal. L’idea di socialità in economia è restata infatti la stessa: qualcosa che lo Stato deve imporre, e tutela. Idea, direi, del tutto sbagliata. E però è la sola possibile per una cultura di sinistra stanca, e che non ha mai voluto rinnovarsi. Sarebbe solo bastato in effetti già leggersi Omero, per capire che la parola «oikonomia» significa redistribuzione ospitale. Dunque è inerente, originaria all’atto economico una solidarietà, che non implica lo Stato. Perciò Olivetti nei suoi esperimenti a Ivrea parlava della sua fabbrica come di una comunità: influenzato da Rudolf Steiner, voleva tenerne ben fuori lo Stato politico. Ma non gli si badò, tutti presi da Marx o Sraffa. E trascurando per esempio pure von Hayek, liberista estremo, ma che vedeva nello scambio una catallassi, un’ammissione nella comunità.
Insomma la mia tesi è che un’economia sociale può compiersi meglio per via comunitaria e libertaria, limitando le tasse, e ogni intrusione statale. Nel migliore dei casi con la cultura e la sanità finanziate da fondazioni. La socialità in economia richiederebbe del resto il meno possibile di far intervenire Stati o super Stati. Ma è quanto meno aggrada alle sinistre. Le quali, screditatisi tutti i loro statalismi, si sono messe a difendere i super Stati: la Ue o il Wto. Obliando le comunità concrete tormentate da tasse, immigrati, globalizzazioni, e alle quali gioverebbero perciò un po’ meno Stati e super Stati. E servirebbe invece un’impresa in armonia alla comunità, che mantenga il vincolo di sani bilanci; ma riunisca consumatori e lavoratori, in disegni di sussidiarietà. Calate così le tasse lo Stato potrebbe ridursi a poche funzioni; in confederazioni di comunità libere, anche di sottrarsi alle follie globalizzanti. Giacché non deve obliarsi: persino per il liberista estremo von Hayek lo scambio era una libera ammissione nella comunità.
In altri termini il dibattito sull’economia sociale non richiede le solite chiacchiere stanche sull’equilibrio tra Stato e mercato. Non può svolgersi all’altezza dei tempi senza riferimenti alla cultura comunitaria e libertaria. Essa è varia e vasta, pure se ignorata in una cultura italiana, così impoverita dalle sinistre.
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