Mettiamo che ora il governo, passato lo sciopero, pensasse di giocare come unica carta quella di buttare sul piatto risorse ai nuovi ammortizzatori sociali. Sarebbe un azzardo costoso. Per dividere le confederazioni dovrebbe ricorrere a rilanci su rilanci. Trovandosi già a dover fronteggiare gli effetti di un onerosissimo contratto del pubblico impiego; a provvedere alla copertura della decontribuzione, contropartita richiesta da Confindustria per devolvere i flussi del tfr alla previdenza complementare; e in presenza di andamenti tendenziali del deficit che destano preoccupazione.
Oltre che costoso, sarebbe un azzardo poco accorto, perchè quello degli ammortizzatori sociali è un sistema delicato da progettare e difficile da amministrare: ed è imperdonabile che vi si ponga mano valutando non l’efficacia da ottenere ma l’entità del “riscatto” da pagare.
Sarebbe la peggiore conclusione di una partita che il governo ha giocato male sin dall’inizio. Silvio Berlusconi, a Parma, citando Machiavelli, ha ricordato che è pericoloso per un politico introdurre riforme, perchè si guadagna l’odio di chi ne è da subito danneggiato, e non la riconoscenza di chi ne sarà eventualmente avvantaggiato. Spiace dirlo, ma nella ventilata riforma dell’articolo 18, il presidente del Consiglio ha fatto ancor peggio di
quanto dica il segretario fiorentino.
Per far accettare la sua proposta il governo ne ha ridotto via via la portata reale, finchè quelli che potrebbero esseme avvantaggiati sono diventati un gruppo esiguo fino all’evanescenza; ma cammin facendo si è esaltata la sua portata simbolica, sicchè ha finito per aver contro quasi tutto il mondo del lavoro: sia quelli che
sono oggi tutelati dall’articolo 18, sia quelli che non lo sono ma vorrebbero.
Un tale disastro bisogna progettarlo con cura. Il governo ha giocato tutte le sue carte sull’aumento dell’occupazione, non su quello dell’uguaglianza, riequilibrando i diritti tra lavoratori tutelati e non tutelati. Non ha capito che l’articolo 18, prima ancora che nelle leggi, è nella testa degli italiani. Un’indagine Demoskopea per la Fondazione Rodolfo Debenedetti, pubblicata sulla Stampa, mostra che il 70 per cento degli italiani preferisce un mercato del lavoro in cui è molto difficile trovare un impiego, ma è difficile perderlo una volta trovatolo; e che questa preferenza è anche dei disoccupati, che pure dovrebbero essere più interessati a trovare un posto oggi che preoccupati di perderlo domani.
Se si vuole andare verso una società organizzata secondo criteri di merito, non può essere il giudice a vigilare sui licenziamenti, e la rottura di un contratto civilistico non può essere sanata solo annullando l’atto stesso col reintegro anzichè essere risarcita in moneta. Un sistema industriale dinamico, necessario a vincere sui mercati mondiali, non può coesistere col conservatorismo di 70 lavoratori su cento. Un’economia basata sull’innovazione di tecnologia e di modelli di business è impossibile, se gli individui non sviluppano volontà di imparare e disponibilità a rischiare.
Queste sono le mie convinzioni, e le ritengo a pieno e buon diritto “di sinistra”: riformista e di governo, certo. Siamo ancora una volta al “nodo delle classi dirigenti”, come ci ha ricordato Jas Gawronski (La Stampa 10 aprile).
La classe politica del centro destra si è costituita attingendo largamente alla società civile. E il fallimento del governo nella vicenda dell’articolo 18 pesa sulle spalle sia della società politica che della società civile, specchi entrambi dell’anima profonda di un paese che la flessibilità stenta a capirla. Che fosse possibile fare altrimenti, lo dimostra la Spagna: lì un governo di centro destra ha proposto riforme incisive, non simboliche, in tema di diritto del lavoro, ed è riuscito a vararle senza che lo scontro sociale diventasse frontale.
Se affinità politica e cordialità personale non servono a copiare bene, a che servono? Se è vero che questa ormai è una battaglia politica che mette in gioco anche, con Sergio Cofferati, il vertice dell’opposizione, il governo dovrebbe smarcarsi. Troppo arrogante, voler fare oltre che il re a casa propria anche il king maker dell’opposizione. Il governo cambi allora gioco, prima di metter mano al portafoglio pensi bene al disegno complessivo.
Perdere con la forza, non condanna a morire per mancanza d’intelligenza.
aprile 19, 2002