«E alla fine nessuno ne restò». Quando Piero Giarda ha annunciato che non ci sarà nessun tesoretto a cui attingere per ridurre le tasse, solo sistema sicuro per promuovere la crescita, mi è venuta in mente la filastrocca dei “Dieci piccoli indiani”. Ma come, mi son detto, noi guardavamo alla spending review come all’ultimo indiano della compagnia, e ora il ministro ci viene a dire che anche quello «in un bosco se ne andò, a un pino s’impiccò, e nessuno ne restò»?
Quando poi ho visto che anche a Giovanni Majnoni i colpevoli dell’«assassinio della crescita» fanno venire in mente un titolo di Agatha Christie, (Il Sole 24 Ore, 12 aprile) mi sono chiesto se non ci fosse qualche causa inconscia in questa associazione tra romanzi gialli e problemi del Governo. Nel senso che i “dieci piccoli indiani” fossero quelle cose che sarebbero necessarie, ma che questo Governo non può fare; e il “giallo” fosse la ragione di questa impasse. (Per evitare che qualcuno per disperazione ricorra al gesto inconsulto di buttar via il giornale, dirò che ho un piccolo indiano di riserva, cioè una cosa che il Governo potrebbe fare, ma lo svelerò solo alla fine: come si conviene nei gialli).
La ragione sta nella natura dell’emergenza il cui superamento è la ragion d’essere di questo Governo. Quale emergenza? L’incombere di una crisi finanziaria che poteva portarci a fare la fine della Grecia? Oppure la necessità di rinviare un ricorso alle elezioni che la gran maggioranza del Parlamento non voleva ritenendola pericolosa? (Tralascio l‘uscita dal berlusconismo: quelli che sostengono che questa era l’emergenza non si accorgono che così proiettano un’ombra sull’operato, che invece è stato impeccabile, del capo dello Stato). Nel primo caso sarebbe stato un Governo analogo a quello Dini del 1995, che presenta un’agenda e dura il tempo necessario a realizzarla. Nel secondo, l’analogia sarebbe con il Governo Ciampi del ’93, che deve durare il tempo necessario a portare la barca nel porto di nuove elezioni. Invece il Governo Monti non ha mai chiarito se è un “governo per fare” o un “governo per durare”.
Le misure immediate per dare ai mercati (e alla Germania) un segnale che superasse la crisi, Fornero e Monti le portano a casa di slancio: pensioni e tasse. Ma quando si tratta di liberalizzare, i “piccoli indiani” cadono uno dopo l’altro: i provvedimenti sono rimandati nel tempo (Snam Rete Gas), o demandati ad altri (taxi), oppure edulcorati per preservare le rendite dei “viaggiatori dell’Orient Express” e, in un soprassalto di decisionismo, bizzarramente quantificati (ordini professionali). E il Governo anche dopo si muove in continuità con quella cultura (o con quei vincoli): l’ultima è la notizia della costituzione di «task force per le start up». Il che, detto il giorno dopo che Facebook, una start up del 2004, ha annunciato di avere acquistato per un miliardo di dollari Instagram, classe 2010, fa un certo effetto.
La riforma del mercato del lavoro è emblematica: il passo avanti che ci si aspettava era il riconoscimento della autonomia dell’imprenditore nel decidere le strategie aziendali, quindi nella determinazione delle quantità e caratteristiche delle risorse necessarie per implementarle, avendo certezza dei costi in cui sarebbe incorso in caso si rendessero necessari adeguamenti. Il “governo per fare” ha dato segni che sarebbe stato capace di resistere al sindacato. Ma il “governo per durare” non può entrare in collisione con i partiti, e se ha ceduto qualcosa a una parte ora dovrà cedere qualcosa all’altra. Così, nel bilancino degli equilibri, non rimarrà nulla del fine vero della riforma.
Un Governo di emergenza deve mettere mano ai fenomeni delle crisi; se è nominato ma non votato, più difficilmente può aggredire le cause prime che hanno determinato quei fenomeni. È evidente che debolezza e breve durata dei governi della prima repubblica sono all’origine del nostro debito pubblico, e che quindi bisogna por mano alla legge elettorale ed alle modifiche istituzionali ad essa solitamente associati: ma sono problemi di cui questo Governo giustamente non intende farsi carico. Lo stesso dicasi dell’obbiettivo indicato da Mario Draghi, il necessario superamento dello stato sociale europeo; o dei beneficiari delle rendite di posizione di cui parla Majnoni. E così pure sarebbe, a rigor di logica, dei problemi del finanziamento dei partiti e dei costi della politica: eppure verso di essi difficilmente un “governo per durare” potrà avere lo stesso distacco.
Ora è venuto il momento di svelare il piccolo segreto del giallo. Sono le privatizzazioni. Non che sia una novità, il tema è già stato sollevato, anche su questo giornale (Sole 24 Ore, 26 gennaio 2012). È un’iniziativa che rientra nell’agenda sia di un “governo per fare” – per gli effetti sul debito – sia di un “governo per durare” – per gli effetti sull’efficienza del sistema economico. Nel frattempo è giunto in dirittura d’arrivo il Ddl che introduce il pareggio di bilancio in Costituzione: manca la seconda approvazione da parte del Senato. Restano quindi da finanziare solo i deficit del 2012 e del 2013, stimabili tra il 2,5-3% di Pil. Con privatizzazioni che facciano entrare nelle casse dello Stato 45 miliardi, cifra significativa ma non proibitiva, è possibile eliminare fin d’ora e per sempre la necessità di ricorrere al mercato per emettere nuovo debito. Sembra plausibile che già l’avvio di un siffatto programma e la decisione di portarlo avanti in tempi brevi, serva a ridurre la volatilità degli spread e il nervosismo politico che l’accompagna.
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