Da Palermo a Torino
Può darsi che, come sostiene Guido Rossi nel suo ultimo libro “Il mercato d’azzardo”, l’economia a livello planetario abbia messo in scacco la politica, obbligandola ad abdicare ai suoi compiti di indirizzo; può darsi che nella grande finanza internazionale “nei rapporti fra politica ed economia, la prima ormai non indirizza più la seconda, le obbedisce senza discutere”- anche se si nutrono forti riserve sui rimedi proposti.
Ma a livello nazionale, per non parlare di quello regionale, la cronaca restituisce un quadro di rapporti di forza opposto a quello che il professore stigmatizza.
Prendiamo quanto sta accadendo a Palermo al Banco di Sicilia. Anche per il Presidente dell’Assemblea regionale Siciliana Gianfranco Micciché le due sfere, della politica e delle banche, devono restare separate: ma “in generale”. Nel caso in questione invece, “la politica ha l’obbligo di interessarsi della gestione della banca”. Il rapporto tra politica, rappresentata dalla Regione Sicilia, ed economia, rappresentata dal Banco di Sicilia, è regolato da una convenzione, per la quale “il socio Regione Siciliana non deve essere concepito come un normale azionista finanziario di minoranza ma come un azionista pubblico che si interessa del territorio e del suo sviluppo”. Il fatto clamoroso non è la paradossale sedizione palermitana, ma il fatto che uomini politici di primo livello, con un peso rilevante negli equilibri politici nazionali, nel 2008, sostengano che il potere politico deve “interessarsi della gestione”, cioè in pratica abbia diritto a scegliere i gestori, per orientarli a fare gli “interessi del territorio e del suo sviluppo”, cioè in pratica ad addossare alla banca costi impropri, e quindi a far sopportare agli altri soci la corrispondente perdita patrimoniale.
Altri soci tra cui ci sono anche Fondazioni bancarie. Se in Sicilia vi è un intervento esplicito della Regione, nelle altre regioni é per loro tramite che si è realizzato il raccordo tra politica e banche. Un’alleanza di “grande centro” si formò automaticamente non solo per archiviare i progetti di vendita delle partecipazioni bancarie col metodo dei voucher, non solo per respingere le norme di legge che impedivano alle Fondazioni di contribuire al controllo delle “loro “ banche”, ma perfino per frustrare i tentativi di Visco prima e di Tremonti poi di ottenere lo stesso scopo agendo sugli statuti. Sembra uno scherzo del destino: proprio le Fondazioni grandi azioniste di Unicredito, quelle che si comportarono da normali azionisti istituzionali, sostenendone le fusioni prima e lo sviluppo internazionale poi, devono oggi subire un danno patrimoniale a causa di un pesante intervento della politica su una banca che Unicredito possiede al 100%.
A Torino, le discussioni tra il Sindaco Sergio Chiamparino, il Presidente della Regione Mercedes Bresso, il segretario regionale del PD Gianfranco Morgando – tutti soggetti pubblici, dunque – sulle designazioni dei vertici della Compagnia di SanPaolo, portano alla luce le recriminazioni sulle conseguenze della fusione con Intesa fermamente voluta da Enrico Salza. Situazione diversa, certo: a Palermo si discute dei vertici di una Banca, a Torino di quelli di una Fondazione. Ma le dichiarazioni degli interessati, il fatto stesso che i candidati vengano valutati in base alle loro competenze bancarie e non a quelle in attività filantropiche, dimostrano che ciò che rende vivaci la discussioni, beninteso con altra compostezza e con altri toni, non è solo l’interesse per il lungo elenco delle iniziative della Fondazione (l’unica italiana attiva a livello internazionale), dal Collegio Carlo Alberto, al Museo Egizio, alla Reggia di Venaria, ma per la partecipazione del 7,5% che essa ha in Intesa SanPaolo e che deriva dal 15% che aveva nell’Istituto SanPaolo al momento della fatal decisione. Il “riequilibrio” dei ruoli tra Torino e Milano è la versione sabauda dello stesso “interesse del territorio” di cui parla Miccichè. Fu per motivi politici, quale è il pregiudizio a favore dell’italianità, per scongiurare una (probabilmente presunta) scalata da parte del Santander che si procedette di gran carriera alla fusione con Intesa. Invece di scongiurare, bisognava attivare la contesa per il controllo: avrebbe corrisposto all’interesse economico della Compagnia, che avrebbe valorizzato la propria partecipazione e ridotta la concentrazione di rischio su un’unica azienda; e all’interesse politico di realizzare una maggiore concorrenza a beneficio dei clienti della banca ed in generale del sistema bancario italiano.
Con la legge sul risparmio e il governatorato di Mario Draghi è finita l’era dei “piani regolatori” bancari; la sedizione palermitana andrà al suo epilogo, i mugugni piemontesi ritorneranno sottotraccia. Ma il pregiudizio dell’intervento dello Stato nell’economia è sempre vivo e pronto a saltar fuori: che si tratti di Alitalia o di Malpensa, di servizi pubblici locali o di autostrade, di Rai o di Poste.
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gennaio 15, 2008