Se il nuovo corso politico porterà a un “bipolarismo non militarizzato” le leggi sugli assetti societari e sul conflitto d’interessi andranno modificate.
Se allo pseudo-bipolarismo succederà lo pseudo-proporzionale, quale sarà l’effetto sul sistema televisivo? La questione televisiva è da trent’anni intrecciata con gli equilibri politici, per essa sono caduti Governi, si sono dimessi ministri, si sono svolti referendum.
Se al posto dell’Ulivo e della Casa delle Libertà troveremo Partito Democratico e Partito delle Libertà, se alle coalizioni tenute insieme dagli “anti” succederà un bipolarismo non militarizzato, RAI e Mediaset, non più usati come strumenti bellici, dovrebbero potersi concentrare a competere sul piano dei prodotti, e a non perdere l’aggancio agli sviluppi digitali che stanno rivoluzionando il sistema dei media.
Questo scenario si stava appena delineando, che le rivelazioni di rapporti collusivi Rai Mediaset hanno offerto il destro per usare le questioni del conflitto di interessi e della posizione dominante come macigni da porre di traverso al nuovo corso. Intendiamoci: quanto si legge delle ”relazioni pericolose” tra giornalisti, appare professionalmente e deontologicamente censurabile: l’azienda dovrà severamente sanzionare. Se quello che i giornalisti si sono detto avesse riscontro in quello che gli spettatori hanno visto, ci potrebbero essere rilievi anche in tema di par condicio, che obbliga il sistema televisivo nel suo insieme a un’informazione corretta ed obbiettiva.
Ma il conflitto di interessi, che c’entra? Gli obbiettivi certamente non erano economici. Il fatto è che, piaccia o non piaccia, Berlusconi in quanto capo di Forza Italia detiene anche lui la sua “quota” di una RAI proprietà dei partiti: così sarebbe anche se vendesse Mediaset a Murdoch. E quanto ai rapporti col potere politico, raccomando l’intervista del ”Corriere” di domenica 25 all’ex direttore generale RAI Pierluigi Celli: un’utile lettura a chi, senza arrossire, considera una rivelazione sconvolgente che la televisione di Stato ha, diciamo, un occhio di riguardo per il capo del Governo pro tempore; e un capo del Governo pro tempore non se lo attende. D’altronde, anche le proposte in tema di conflitto di interessi mirano a isolare il proprietario di Mediaset dai suoi beni e non il capo dell’esecutivo dalla RAI.
Le leggi sul conflitto di interessi vogliono porre rimedio all’anomalia per cui chi già possiede tre reti televisive, se va al Governo se ne potrebbe avvalere per rafforzare il proprio consenso politico, alterando così il processo democratico. Le proposte si muovono su una cengia stretta: qualcosa di più di un inutile blind trust, e qualcosa di meno di un obbligo a vendere, troppo simile all’esproprio; qualcosa di più di un’inutile incompatibilità, senza sfiorare una assurda incandidabilità. Nessuno propone la soluzione radicale e logica: vendere la RAI tutta intera, sperando che a comprare sia un tipo alla Murdoch che la concorrenza a Mediaset e al suo proprietario la faccia davvero; e che non finisca con l’ammucchiata “fratelli d’Italia” genere Telecom. Lo stesso principio democratico della separazione dei poteri, col nuovo corso politico vorrebbe guardato in ottica diversa. Quando quel principio fu formulato non esisteva l’industria culturale, e i rapporti tra esecutivo e legislativo erano ben diversi da quelli che sono divenuti in molte grandi democrazie. Soprattutto sostenere che la metà degli elettori italiani in un arco di quasi tre lustri e in cinque elezioni sono stati antidemocratici, è in contraddizione con il significato letterale di democrazia e con il suo più essenziale meccanismo, il voto. Pretendere di trovare un accordo proprio sulla riforma di questo meccanismo con qualcuno che contemporaneamente viene dichiarato vulnus per la democrazia, più che contraddittorio, sarebbe insensato.
Se il nuovo corso politico darà luogo a un bipolarismo non militarizzato, le leggi al momento in esame sugli assetti di Mediaset e di Rai dovranno subire importanti modifiche.
Dovrà ovviamente cadere l’illiberale 45%, l’assurda imposizione a Mediaset di ridurre di un quarto il proprio fatturato. Il beffardo “quarantacinque mi sembra fin tanto” non è di casa nel mondo del proporzionale (e, a dire il vero, non solo in quello).
L’obbligo per Retequattro e Rai3 di trasmettere in digitale terrestre fa apparire peloso l’ulteriore recente rinvio al 2012 per il passaggio integrale alla nuova tecnologia. Sempre che non finisca come con il “disarmo bilaterale”, la vendita di una rete per parte, che era sul tavolo già nella legislazione del 1996, e che cadde soprattutto per l’opposizione di Usigrai.
Quanto alla governance RAI, si cincischierà su Commissione di Vigilanza e Consiglio di Amministrazione. Se la RAI diventerà proprietà di una Fondazione, il balletto delle nomine prima, il “coordinamento” con la politica poi, richiederà qualche passaggio telefonico in più: e molto più lavoro per gli esegeti delle intercettazioni.
novembre 27, 2007