Caro direttore, ci sono buone ragioni per credere che Silvio Berlusconi non riuscirà a trovare il «colpo d’ala» analogo all’apertura alla Cina di Richard Nixon nel 1972. «Liberare l’industria dai suoi lacci», che a Moises Naim (Corriere della Sera, 3 agosto) appare come sua «ultima possibilità», sarebbe tutto tranne che una novità: era il programma con cui vinse le elezioni del 2001.
La maggioranza degli italiani credette che la sua denuncia iconoclasta dei fantasmi della nostra storia passata avrebbe frantumato le incrostazioni dei nostri ordinamenti presenti. Premiò chi prometteva di stare dalla loro parte, pensando bastasse al dispiegarsi di voglia di intraprendere, capacità innovativa, gusto del rischio. Confidò in un secondo miracolo economico, visione che perfino il Governatore volle incoraggiare con una beneaugurante previsione.
A metà legislatura il progetto è sostanzialmente irrealizzato, e la visione dissolta. C’è stata la riforma del mercato del lavoro. La stagnazione economica può giustificare i ritardi nella riforma fiscale: ma non ha colpe per gli interventi mancati, sulla liberalizzazione delle professioni, sull’efficienza nel sistema bancario, su moderne regole di governance. Tutte le riforme, in fondo, hanno un obiettivo primario: aprire il Paese al vento tonificante della concorrenza. Come può credibilmente promuovere concorrenza il proprietario di un’impresa, Mediaset, che prospera in un duopolio bloccato? Come si può chiedere agli imprenditori il gusto del rischio, quando la prima cura del capo del governo sembra essere quella di proteggersi dai rischi? Certo, c’è il conflitto di interessi, «piombo nelle ali», come lei, caro direttore, lo definisce nel suo editoriale di domenica: ma è una spiegazione sufficiente? Io credo che siano ragioni politiche quelle per cui molto difficilmente Berlusconi riuscirà a inventarsi «la sua Cina».
La vittoria del ’94 e ancor più quella del 2001 sono figlie di una notevole innovazione politica: essere riuscito a disporre, intorno al proprio seguito carismatico, Lega, An ed ex dc, componendo insieme l’antagonismo sanguigno della Lega, la vocazione mediatoria dell’ex dc, il populismo moderato di An. Era il progetto politico-personale del premier a costituire pilastri e tetto della Casa delle libertà. Ma il cemento non ha tenuto, nella costruzione si aprono crepe vistose. Berlusconi, alle prese col serio rischio di vedere il proprio esecutivo diventare un «normale» governo italiano, di quelli deboli e costitutivamente declinanti invece che di svolta, deve mantenere l’immagine «rivoluzionaria» delle origini. Per questo, ha bisogno della Lega, fino a subirne i ricatti: anche se quella carica «rivoluzionaria» è essa pure un ricordo, ridotta a difendere le pensioni di anzianità e a prendersela con gli immigrati. Svanito il «miracolo», in cui ci sarebbero state risorse e riflettori per tutti, scossa la fiducia e lo «stellone» del premier, in luogo dello «spirito liberale» emergono gli interessi corporativi, ognuno pensa al proprio patrimonio politico. Si comincia a misurare quanto sono costate, in termini di consenso, le garanzie prestate. Così, i primi a pensare a che cosa succederà dopo il berlusconismo, e a lavorarci, sono proprio i suoi alleati.
Di fronte a questi problemi, le accuse dell’Economist devono apparire poca cosa al premier. Nel ribaltarle, come gli è già riuscito tante volte, potrebbe perfino appellarsi a riflessi nazionalistici, del tipo right or wrong, is my country. No, il problema non è l’Inghilterra dell’Economist, è la Cina mancata di Moises Naim. A differenza di Nixon, però, Berlusconi non ce la darà. Dovrebbe avere il coraggio di una totale rottura con lo schema di cui è finito prigioniero, mentre il primo a dirlo incapace è il suo sfuggente e incerto smarrimento delle ultime settimane.
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agosto 5, 2003