Recensione al libro di G. Rajan e L.Zingales, “salvare il capitalismo dai capitalisti”
“Se mi venisse chiesto quale scoperta abbia più profondamente influenzato le fortune della razza umana, si potrebbe probabilmente dichiarare: la scoperta che il debito è una merce vendibile”. Lo scriveva, oltre un secolo fa, Henry Dunning McLeod: potrebbe essere un exergo per il libro di Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales, “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (Einaudi).
Non si contano i libri che dagli scandali Enron e WorldCom, Cirio e Parmalat traggono la conferma di una degenerazione inarrestabile del capitalismo, di una malattia che, soppressi gli anticorpi, è diventata epidemica. Non sono attacchi portati da posizioni di sinistra antagonista o da giottini arrabbiati. Sono critiche che vengono dall’interno del capitalismo. A volte, pensose riflessioni di personaggi che ne sono stati protagonisti.
Questo è un libro diverso. Posandolo, vien da pensare che i capitalisti da cui salvare il capitalismo siano proprio quelli che lo vedono avviato verso un inevitabile declino: e che ne scrivono.
Questo è un libro fresco. Scritto da due quarantenni, che, muniti di solida dottrina economica, guardano al mondo con occhi sgombri da pregiudizi, non certo proclivi a un ottimismo panglossiano, semmai più inclini a un radicalismo riformista. Alcune delle proposte per il “salvataggio” contenute nell’ultimo capitolo faranno alzare il sopracciglio a più di un liberista: imposta patrimoniale, imposta di successione, antitrust che colpisca anche le posizioni dominanti formatesi per crescita endogena.
“La nostra argomentazione è semplice: – scrivono – coloro che stanno al potere, le élite dominanti, non vogliono perderlo. Si sentono minacciati dai liberi mercati, e i più problematici sono quelli finanziari, perché forniscono risorse ai nuovi arrivati che, poi, possono rendere competitivi anche altri mercati. Pertanto, quelli da ostacolare sono soprattutto i mercati finanziari”. Vedono come “scenario da incubo” quello in cui “con il pretesto di conquistare maggiore sicurezza per i disagiati, le classi dominanti ottengono invece la propria sicurezza sopprimendo il mercato”. Contro il pericolo di un mercato che “regredisca al sistema delle relazioni, [...] in cui non sono le idee fertili ma la ricchezza a generare il credito”, il capitalismo che vogliono salvare è quello in cui contano le capacità, e in cui ci si può proteggere meglio dai rischi.
Sull’attività finanziaria grava un antico pregiudizio ostile. Si manifesta sia negli argomenti con cui viene accusata, sia nelle ragioni con cui viene giustificata. L’accusa canonica contro il prestito e chi lo pratica, perché la maturazione dell’interesse si fa nel tempo e il tempo è di Dio, pronunciata dal Sinodo di Elvira dell’anno 300, accomunò scolastica e riforma, diede vita a Shylock, finì per ingrossare i fiotti antisemiti. L’accusa di origine materialista contrappone l’economia cosiddetta reale a quella finanziaria, virtuosa la prima e parassitaria la seconda: una fallacia che i due economisti smontano con rigore deduttivo.
Ma il pregiudizio più resistente è quello implicito nella difesa che si fa dei vizi privati in nome delle pubbliche virtù. “L’interesse”, scrivono invece Rajan e Zingales, “è il più puro degli stimoli”. Il “vizio” non è la greadiness, non l’avidità del danaro, radice di tutti i mali, secondo la citazione di Lutero con cui Guido Rossi suggella il suo “Conflitto epidemico”. “Vizi” sono il beneficio privato del controllo e la difesa di privilegi. I mercati finanziari sviluppati offrono alla politica strumenti di straordinaria efficacia per ampliare le libertà, ripartire i rischi, aumentare il benessere. I tanto deprecati strumenti derivati hanno consentito di promuovere l’azionariato popolare nelle privatizzazioni, di ridurre i rischi degli agricoltori, di migliorare la qualità della vita di malati terminali.
Rajan e Zingales raccontano le storie parallele di Sufia, che nel suo villaggio in Bangladesh fabbricava sgabelli di bambù; e di Kevin Toweel, che studiava a Stanford. A Sufia – si rese conto Muhammad Yunus, il fondatore della Grameen Bank – mancavano solo 22 centesimi per comperare la materia prima senza dover passare sotto le grinfie degli intermediari. Kevin riuscì a farsi finanziare da un search fund la ricerca di un’azienda, la comprò con i soldi di altri investitori, e realizzò il suo sogno di essere imprenditore in proprio.
Inevitabile chiedersi: dove sta chi, da noi in Italia, avrebbe le idee di una Grameen Bank o di un search fund? Forse nel nostro sistema bancario? Quale forza politica mette in testa al suo programma lo sviluppo di una finanza che dia prospettive e fiducia a chi ha necessità e entusiasmi, bisogni e idee?
“La maggior disponibilità di capitale sta lentamente compensando molti mali del capitalismo [...] I cittadini hanno più possibilità di avere successo se lavorano in proprio e, anche quando lavorano in un’azienda, sono trattati meglio, perché le aziende sono diventati luoghi di lavoro meno autoritari.” I mercati finanziari sono il punto di attacco di ogni politica riformista.
aprile 21, 2004