intervista di Ettore Boffano
C’è un operaio, un operaio in tuta blu nelle fantasie elettorali di Franco Debenedetti, 61 anni, ingegnere, ex manager dell’Oliveti; e fratello di Carlo, l’Ingegnere di Ivrea. Un operaio torinese che, la mattina del 27 marzo, dovrà decidere se sceglierlo come senatore progressista scartando Valerio Zanone, I’ ex sindaco liberale passato al Patto di Segni, e Gipo Farassino, l’ex chansonnier oggi luogotenente di Bossi all’ombra della Mole.
Ingegner Debenedetti, il suo problema elettorale sembra proprio questo: può un ex imprenditore convincere un operaio a votare per lui?
«I miei problemi, in realtà sono due. Convincere l’estrema sinistra e convincere il centro. Il nuovo sistema fa si che il voto coinvolga sia lo schieramento che la persona. Io devo convincere il centro ad accettare il mio schieramento, mentre devo convincere la sinistra ad accettare la mia persona».
Cominciamo dalla sinistra. Che cosa direbbe a quell’operaio in tuta blu?
«Che, questa volta, non ha un comunista da scegliere. Può votare per Zanone, per Farassino oppure per me. E vorrei dirgli che io porterò in politica la mia esperienza su un tema prioritario: sviluppo e occupazione. È la stessa cosa che vuole quell’operaio. Parlo di Torino, del suo futuro: non possiamo arroccarci su una linea difensiva, e fare concorrenza alla Malesia e alla Cina sul costo del lavoro. Dobbiamo invece produrre cose che gli altri non sanno fare. Allora, a quell’operaio, mi sento di dire che io credo di avere più competenze, più rapporti e più idee di uno chansonnier. Non c’è altra scelta».
Basterà? Oggi, quell’operaio sente soprattutto i discorsi di Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista e anche lui candidato per la Camera a Torino. Parole molto diverse dalle sue.
«Siamo nello stesso schieramento, ma quanto alle scelte ideologiche non abbiamo nulla in comune. Questo voglio dirlo con chiarezza; Bertinotti è uno che, sul nostro fronte, guarda al passato. Come capita d’altronde anche a Berlusconi. Quando abbiamo posto la questione di Rifondazione a Occhetto, con la lettera firmata da tredici intellettuali torinesi, volevamo dire proprio queste cose. Ma poi non c’erano soluzioni diverse, non avevamo candidati da proporre in alternativa a quelli di Rifondazione. Gli intellettuali non sono scesi in campo e secondo me hanno fatto bene: il loro ruolo resta quello di coscienza critica. Ora però, conta l’unità. E se poi qualcuno vuole andare a Cuba, lo faccia pure. Oggi non è questo l’importante».
Che ne pensa della proposta di Bertinotti di tassare i Bot?
«Mi sembra una follia. Qualcuno, poi, ha detto che ci può essere un metodo anche nella follia. In questo caso, però, io vedo molta follia (che sui Bot vuol dire terrorizzare la gente) e pochissimo metodo (che dovrebbe essere l’equità fiscale). La ricerca dell’equità fiscale, questo si, è invece un obiettivo irrinunciabile dei progressisti».
Ma dopo il voto? Bertinotti sarà ancora li, con le sue idee…
«Se saremo maggioranza, sarà un problema più di Bertinotti che mio. Sarà lui a dover spiegare se accetta una politica non ideologica, ma realistica».
Resta il problema Zanone: insomma, la necessità di pescare voti al centro.
«Si, Zanone è una persona seria e, quando discuto con lui, non trovo molti punti di contrasto. È stato sindaco di Torino, ma se n’è andato senza convincere troppo i torinesi di questa sua scelta. È stato segretario di partito e anche ministro della Difesa, occupandosi di una vicenda drammatica come quella di Ustica. A lui vorrei dire che in politica, come nell’industria, quando cambiano le strategie e le situazioni bisogna cambiare anche gli uomini».
Veniamo a Berlusconi, il vero avversarlo dei progressisti. Berlusconi, un nome che evoca dure battaglie per uno che si chiama Debenedetti e che è stato manager dell’Olivetti. L’avrebbe mai immaginato che il Cavaliere scendesse in politica e che ottenesse consensi così ampi?
«Che tutto ciò potesse accadere lo avevano intuito e detto, quando ancora non se ne parlava, soltanto due persone: mio fratello Carlo ed Eugenio Scalfari. Quanto al successo, devo dire, purtroppo, che ero stato un buon profeta. Alle prime avvisaglie, ne parlai con un famoso giornalista che mi rispose. “Gli ho consigliato di lasciar perdere: saranno eletti lui e al massimo, quattro o cinque deputati”. Mi stupisce davvero che tanta gente lo abbia sottovalutato…».
Berlusconi è un imprenditore come lei. Franco Debenedetti, dunque, è la persona più giusta per contestare la scelta del Cavaliere?
«Il problema non è l’imprenditore. Quello che mi sembra imperdonabile è di aver chiamato il suo gruppo ‘polo della libertà’. Uno come lui non poteva farlo. lo non gli contesto il diritto di far politica, magari restando anche amministratore delegato delle sue società. Il problema, invece, è la posizione dominante: politica o non politica, Berlusconi ha cinque reti tv e il monopolio della raccolta pubblicitaria. Lo statalismo all’italiana è stato come una partita tra due squadre dove l’arbitro era anche giocatore. Berlusconi si vanta di garantire, anche lui, la correttezza delle sue reti. Cioè scende in campo da arbitro e da giocatore. E poi c’è qualcosa che non mi sembra di aver ancora letto su di lui: Berlusconi, al di là della sua azienda e della sua attività, dà l’idea di non avere contatti con nulla.. Non ha storia, non ha radici, cosi come la sua politica. L’unico suo referente è l’audience, ma come dice Maninazzoli l’audience è il nulla. Esiste solo perché esistono le sue aziende e non ha nessuna appartenenza sociale: ne aveva di più il suo amico Craxi. Berlusconi è cosi, sembra galleggiare nel nulla».
Non le pare una critica un po’ eccessiva?
«Guardi, chi come Berlusconi racconta che ci sarà subito un miracolo economico, è immorale, offende i disoccupati. Berlusconi è uno che, per difendere i propri interessi, illude la gente. Infine, c’è l’aspetto politico: questo agitare il fantasma del comunismo. Uno che si propone in politica in quanto imprenditore e guarda al passato, è un politico strabico, fuori dalla storia: come fa a progettare il futuro se è ossessionate, dal passato?»
Torniamo a Torino: il suo collegio è quello dove vota il cardinale Giovanni Saldarini, vicepresidente della Cei. Il Partito Popolare lo ha un po’ “tradito”, offrendogli la candidatura del liberale Zanone, un massone «in sonno» che, proprio per questo, non ebbe i favori della Curia al momento della sua elezione a sindaco. Poi c’è lei, compagno di strada degli ex comunisti, e il leghista Farassino. Chi dovrà scegliere l’arcivescovo di Torino?
«Sono certo che il cardinale voterà comunque per qualcuno e non farà il Ponzio Pilato, lavandosene le mani. Se potessi parlargli, sono convinto che riuscirei a persuaderlo e, penso, senza bisogno di ricordargli che ho studiato nel liceo cattolico torinese «San Giuseppe» o che i Cristiano-Sociali sono una componente fondamentale di Alleanza Democratica…»
Un’ultima domanda: ma in questa «nuova politica», lei non ci vede un po’ di trasformismo?
«Che il trasformismo si insinui è inevitabile, ma la garanzia migliore restano sempre gli elettori chiamati a giudicare e a scegliere».
E lei, imprenditore passato alla politica, non si sente un po’ trasformista?
«No, guardi, davvero. Anche perché non saprei dirle da che cosa e in che cosa mi sarei trasformato…».
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febbraio 27, 1994