Sono i riformisti in questo Paese a essere uccisi
Sono i riformisti in questo Paese a essere uccisi. Studiosi animati dalla convinzione appassionata che sia possibile un percorso di razionalità per adeguare il mondo del lavoro ai cambiamenti delle tecnologie e delle conoscenze, per dare sicurezze e premiare il merito, per fornire garanzie e favorire lo sviluppo.
Che mettono a disposizione dei governi i loro saperi accumulati in anni di studio, e che per questo corrono il rischio di cadere sotto i colpi assassini, su un marciapiede, accanto alla borsa con le tracce dei loro pensieri. E’ un’ingiustizia che rivolta. Così l’orizzonte delle riforme possibili si restringe, e diventano più fioche le voci che lo propongono.
Ci sono, di questo, innegabili responsabilità politiche: perché se davvero oggi l’ Italia si avvia a diventare un regime, se assistiamo alla fase nascente del potere di un nuovo Hitler, se sono minacciate le fondamentali libertà democratiche, allora non stupiamoci del ricorso alla lotta armata. E se lo si ripete per mesi, giorno dopo giorno, sono i terroristi a credere di poter contare su l numero crescente di coloro che credono di dover fronteggiare un regime.
Si fa fatica, in queste condizioni, a riprendere il filo di un ragionamento e di una vicenda tormentata quale quella dell’art.18. Ma è il solo modo di riaffermare le ragioni del riformismo, perché il pensiero e la passione di Marco Biagi continuino dopo il suo sacrificio.
Un po’ per ignoranza, un po’ per disinformazione, si è perfino perso di vista che cosa è in gioco: che non è il licenziamento senza giusta causa, né tanto meno discriminatorio, ma per giustificato motivo economico.
Per la nostra legge, non spetta all’azienda, ma al giudice, decidere se può o no mantenere quel lavoratore in quel posto; perlopiù il giudice non riconosce il giustificato motivo economico e quindi ordina di reintegrare il lavoratore nel “suo” posto di lavoro.
Questa impostazione giuridica è coerente con un modello economico in cui all’impresa si chiede di perseguire una funzione obbiettivo dove entrano una varietà di parametri genericamente indicati come “sociali”: gli interessi degli “stakeholder”.
Il modello opposto è quello che indica nella creazione di valore per gli “shareholder” il solo obbiettivo che l’impresa deve perseguire, col vincolo di rispettare le leggi vigenti.
Oggi nessuno mette più in dubbio che compito delle imprese è creare ricchezza, e che precisamente in questo modo esse assolvono alla loro funzione sociale. Infatti, come l’analisi teorica prevede e l’evidenza empirica conferma, con la scusa di soddisfare gli interessi degli stakeholder, in pratica si giustificano situazioni di privilegio, di opacità, di maggiore compiacenza e meno competitività.
Se compito dell’impresa è essere efficiente, e se l’efficienza è maggiore quando l’impresa può mettere in ogni posto le persone più adatte, é chiaro che l’interesse generale sta nel facilitare, non nell’ostacolare questo processo. Un processo che crea flussi in entrata e flussi in uscita: e anche se globalmente il saldo è positivo, per i singoli lavoratori il passaggio del flusso di uscita a quello in entrata, e il tempo intercorrente tra i due momenti, può essere causa di disagi e di sofferenze.
Perché questo modello sia socialmente accettabile, è necessario da un lato che l’impresa sia indotta a un responsabile manpower planning, rendendo i licenziamenti onerosi; dall’altro che la società nel suo complesso redistribuisca una parte dei benefici della maggiore produttività per sostenere coloro che ne subiscono gli inconvenienti.
Ragione di chiedere flessibilità e necessità di predisporre gli ammortizzatori sociali, inseparabili tra loro come le due facce della stessa medaglia, sono le logiche conseguenze del modello della “shareholder company”. In questa scelta trova la sua logica da un lato l’abolizione del reintegro in caso di licenziamento per giustificato motivo economico, dall’altro l’introduzione di aiuti alla disoccupazione e di misure attive per il reinserimento nel mondo del lavoro. In tutti i Paesi d’Europa, con impressionante regolarità, un maggior grado di rigidità in uscita corrisponde a minori benefici erogati ai disoccupati, e viceversa, come risulta da una ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti.
L’Italia, insieme a Grecia e Portogallo, esibisce il massimo di rigidità e il minimo di aiuti. Né è la mancanza di fondi il problema principale: le cifre da mettere in gioco non sono astronomiche, alcune migliaia di milioni di euro, che potevano essere risparmiati, ad esempio, con un contratto ai dipendenti pubblici meno inutilmente generoso.
Non è questa la strada che ha seguito il governo. Invece che puntare orgogliosamente su una visione basata sul ruolo delle imprese nella vita economica del Paese, si è cercata la giustificazione della flessibilità nei benefici immediati che essa può portare alle imprese. Non una strategia ambiziosa di crescita, ma una tattica minimalista per correggere alcune storture. C’è una ragione per cui Berlusconi lo ha fatto: egli chiede di dargli fiducia per la sua storia personale, dichiara di voler gestire il paese come un’impresa.
Ma credere e far credere che siano più i punti di contatto che le differenze tra questi due compiti è uno dei suoi errori più grandi: lì è l’origine degli sbagli commessi dal governo sulla questione dell’articolo 18. Se l’impresa viene fatta coincidere con la collettività, si caricano le aziende l’impresa di compiti impropri, d è più facile – come si è visto – il gioco di chi, contrario alle riforme, sostiene che i loro benefici vanno solo alle imprese.
Al contrario, solo distinguendo tra ruolo delle imprese e interessi generali del paese è possibile affrontare con giuste riforme la scandalosa realtà del peggiore mondo del lavoro in Europa: per partecipazione al lavoro, per durata della disoccupazione, per entità del lavoro nero, per ricorso al part time, per l’inequità della differenza tra una minoranza di lavoratori iperprotetta e una maggioranza con poche o nessuna tutela.
Introdurre norme che rendano possibile il licenziamento per giustificato motivo economico serve a combattere queste storture, solo se ciò fa parte di una visione che assegna alle imprese il ruolo di produttrici di ricchezza; e all’amministrazione pubblica il compito di sovvenire alle esigenze e alle difficoltà temporanee dei lavoratori.
“Spostare l’asse delle garanzie dalla fabbrica alla società”, dice ora il Ministro Tremonti: parole che si ritrovano in documenti anche recenti della sinistra riformista. Ma esse giungono quando ormai la situazione è compromessa, dopo che per mesi il Governo ha cercato di fare accettare la riforma minimizzandone la portata invece che enfatizzandone gli obbiettivi.
Ora, la tragica morte di Marco Biagi consgna a tutti un dovere. Al Governo, quello di correggere un’impostazione protesa a uno scontro simbolico più che ai tanti gap da colmare. All’opposizione, quello di preservare la capacità di parlare una lingua diversa da quella dell’appello alla lotta contro un regime che non esiste.
Ai riformisti di entrambe le parti, la necessità di non dimenticare che ci sono accordi, nell’interesse del paese, ma da perseguire talora anche quando scomuniche e minacce fanno sentire il loro raggelante peso.
marzo 21, 2002