di Giuliano Ferrara
Libro untuoso di un vice del Corriere finge scandalo per le camarille
Un vice ad personam del Corriere che si chiama Massimo Mucchetti, giornalista economico di Brescia, ha scritto un agile libretto feltrinelliano per dimostrare, Luigi Einaudi alla svelta mano e imbottigliato per una pronta beva, che la stampa in generale, e il suo giornale in particolare, ha un dovere di indipendenza dai partiti e dai poteri economici che la editano, e che lo tradisce.
Ollallà, come dicono i francesi. La prosa è opaca, bigotta e perfino untuosa, e parecchio pomposa è la tesi. L’autore finge di non sapere che i giornalisti sono lavoratori dipendenti, che il loro padrone non è il lettore ma l’editore, che l’editore non è un contropotere ma un potere tra i poteri, e che quel potere stipula regolari compromessi ad ogni latitudine e longitudine con lo stato, i partiti, le lobby e le altre potenze sociali.
La libertà di stampa non è la deontologia professionale, che è una buona cosa se professata da gente di carattere; non è l’inesistente autoreferenzialità della catena di comando nei giornali, perché nessun giornalista o direttore è padrone di se stesso, e il lettore è solo padrone di comprare o no il giornale: la libertà di stampa è il pluralismo editoriale, la possibilità di agire nel mercato (con sovvenzioni pubbliche e incentivi vari alle imprese serie, se del caso), è la funzione democratica e liberale di contraddizione tra voci diverse e diversamente orientate in favore della formazione di un’opinione o coscienza pubblica. Poi il lettore decide.
La favoletta della deontologia e del contropotere autoreferenziale ci viene di nuovo raccontata, dall’interno di quello che in un giornalone è il potere dei poteri, il tronetto degli analisti cosiddetti economico-finanziari, allo scopo di sputtanare, ma con callida misura, un pezzo del patto di sindacato Rcs a favore di un altro pezzo del patto medesimo.
La destabilizzazione della direzione di Paolo Mieli, agitando ombre e pettegolezzi di corridoio, è la ciliegina sulla torta, ma la torta è di sostanza, è cremosa e ricca di panna montata: è il tentativo pasticcero di puntellare una delle componenti bancarie della proprietà del Corriere, quella (non) rappresentata all’ultimo esecutivo da Corrado Passera (era a Londra), capoazienda di Banca Intesa (più San-Paolo e Palazzo Chigi). Sai che coraggio.
Il Mucchetti è scandalizzato perché uno dei suoi editori, Cesare Geronzi (inserzionista tra gli altri di questo giornale) si sarebbe lamentato per lettera con la direzione perché il cronista finanziario gli aveva fatto malamente i conti in tasca. E che, doveva ringraziarlo? L’autore del “Baco del Corriere” (è il titolo del libro) si lamenta perché Giuliano Tavaroli, capo della sicurezza Pirelli e gran pasticcere delle spiate telefoniche, avrebbe ficcato il naso nel suo computer oltre che a casa di Bobo Vieri. Legittimo. Ma se vuole la palma di whistleblower, il delatore civile della tradizione anglosassone, Mucchetti non deve limitarsi a suggerire che il capo di Tavaroli, Tronchetti Provera, gli è antipatico: deve dire che lo ha fatto spiare lui, e dimettersi (ad personam) o chiederne le dimissioni dal patto. Certi giochini obliqui sono risaputi tra noi gente di mondo: dire e non dire è un parlar d’altro e per conto d’altri.
Mucchetti è convinto che la storia dei furbetti del quartierino è un’invenzione e che in fondo la Bnl doveva andare a Consorte e Sacchetti, giocatori di pura finanza del tutto estranei ai Ds, secondo lui. Infatti il portavoce ad honorem del mondo coop, il vice dell’Unità Rinaldo Gianola, lanciava ieri con affetto e a tutta pagina il bacetto velenoso di Mucchetti, mentre Consorte si va facendo una sua banca. Non abbiamo una banca, ma lui ha o avrà una banca. Vabbè. Vivi e lascia vivere. Ma se sei come tutti impaludato nella vita, con le scarpe schizzate di fango, non ti coprire di profumi indiani. È stucchevole.
novembre 18, 2006