Di fronte alla incredibile sparata sul matrimonio Rai-Stet di cui si è parlato al convegno Telecom di Napoli, si capisce l’imbarazzo di Maccanico: «Non sono cose che deve fare un Ministro», ha osservato il titolare del dicastero delle Poste.
Le due aziende di stato, Stet e Rai, tentano, fondendosi, di sublimare a un livello più elevato di complessità normativa e aziendale i problemi che stanno loro di fronte: la Raí per le richieste di pluralismo e di una progressiva privatizzazione; la Stet per la sfida della liberalizzazione dei servizi imposta da Bruxelles e la necessaria conseguenza di accettare regole asimmetriche.
Se il progetto andasse in porto, per Stet l’annessione Raí rappresenterebbe la pingue ricompensa per dover cedere qualcosa ai Comuni in tema di cablaggio del territorio; per Rai, la possibilità di avvalersi dei cospicui mezzi finanziari risolverebbe il problema della scarsità di risorse e consentirebbe di fronteggiare, senza intaccare le proprie faraoniche strutture, la concorrenza dei privati. Insomma, sarebbe l’applicazione del detto: se non riesci a vincere a un gioco, cambia il gioco.
Peccato che a questo gioco gli unici a perdere saremmo noi. Ciò di cui il Paese ha bisogno è chiaro: concorrenza nella telefonia fissa per ridurre i costi della bolletta (Amato ricordava venerdì che il costo della trasmissione dati è in Italia 4 volte quello dei Maggiori Paesi industriali); pluralismo nel settore dell’informazioni, eliminando l’ipoteca politica che da sempre l’affligge, e di cui leggiamo quotidianamente sui giornali. Ciò che avremmo invece sa rebbe un potere monopolistico nella telefonia che si rafforzerebbe con la TV; e un’interferenza politica che, dominante in Rai, si salderebbe con quella non meno potente che fa capo al gruppo telefonico pubblico.
Concorrenza e pluralismo, privatizzazione e depoliticizzazione: due problemi non semplici, ma distinti. Metterli insieme può servire solo a chi vuole che non vengano risolti né gli uni né gli altri. Chi lancia siffatti propositi lascia, sul progetto, le proprie impronte digitali.
Nessuno nega la convergenza che la tecnologia digitale opera tra i due settori; nessuno vuole porre limiti agli sviluppi industriali delle aziende che vi operano. Ma questo può avvenire solo dopo avere smantellato il monopolio da un lato, e risolti dall’altro i numerosi problemi, anche di natura politica, che affliggono il settore televisivo. Proprio per aver tempestivamente imboccato la strada della concorrenza, oggi gli USA (e in misura minore l’Inghilterra) hanno imprese forti che possono giocare a tutto campo la sfida del digitale. Se non ci sono imprese non c’è mercato, non c’è concorrenza. Non ci si può illudere di saltare questo passaggio con libertà astratte, che sarebbero concretamente a vantaggio solo del monopolista. La cosa è ben presente nell’Europa che cerca di liberarsi dai monopoli: in Germania si parla di separare Deutsche Telekom dalla sua rete di trasmissione cavo, in Spagna il Governo prevede di dare una concessione telefonica alla televisione nazionale, e di privatizzarla completamente, per avere da subito due concorrenti nella telefonia. L’ircocervo Rai-Stet sarebbe un unicum in Europa, ci metterebbe fuori dal contesto normativo. Al momento della privatizzazione Stet, i mercati finanziari si troverebbero di fronte all’offerta di un qualcosa che non è né un’azienda telefonica né un’azienda mediatica, in un sistema che non è né concorrenziale né monopolistico, mentre chi investe i propri soldi vuole innanzitutto chiarezza. Non è escluso che mettere i bastoni fra le ruote alla privatizzazione Stet sia l’obbiettivo vero della proposta.
Tutti vorremmo che aumentasse il numero delle forti e grandi imprese italiane: ma le aziende l’eccellenza se la acquistano focalizzandosi, le dimensioni le definiscono conquistandosi quote di mercato contro la concorrenza. Altrimenti le aziende sono solo grosse; in alcuni casi anche grasse, ingombranti nel salotto di casa e poco appetibili dai pretendenti.
Il Ministro ha ragione dunque a ricordare che il suo dicastero non si occupa di strategie delle industrie. Ma è anche vero che si tratta in entrambi i casi di aziende dí Stato: sarebbe bene allora che, con tutti i problemi che il Paese deve affrontare, si evitasse di crearne di inutili e che il Governo stroncasse sul nascere siffatti propositi.
luglio 7, 1996