Diabolici, quelli di liberal. Ci siamo cascati tutti e due: io che ho scritto la letterina a Giulio Anselmi, nuovo direttore dell’Espresso; e Giampaolo Pansa che mi ha risposto con una violenta polemica sul sito Internet del settimanale. La trappola è scattata e liberal ha così potuto raccogliere le reazioni autentiche del numero due del settimanale di Via Po.
«Adesso mi arrabbio», scrive Giampaolo Pansa. Con chi? Non certo con me, con l’«eterno secondo», come mi chiama lui. Ripetuta due volte dal numero due dell’Espresso, l’allusione rivolta al fratello del suo editore è una di quelle gag involontarie capaci di mandare in sollucchero i freudiani dilettanti. Il messaggio è esplicito, ma non a me diretto. I due numeri uno di via Po, quello della proprietà e quello del settimanale, Carlo De Benedetti e Giulio Anselmi, sono avvertiti: la linea «quasi combattentistica« della contrapposizione a Berlusconi non deve cambiare. Giacché uno è e resta per l’ansa il pericolo per l’Italia, l’inciucio con Berlusconi: e contro l’inciucio vigilerà sempre la vecchia guardia dell’Espresso al comando del numero due di Via Po. Un settimanale concepito come un fortino, spari e cannonate dalle feritoie, e Pansa come Davy Crockett alla testa degli sparuti volontari del Texas.
Chiariti obiettivi e destinatari dell’ «arrabbiatura» pansiana, assodato che della sua bottega si parla e non d’altro, sia consentita una breve digressione nella politica così impropriamente tirata in campo. Non fosse altro per non lasciare nel dubbio Pansa quando si chiede se i suoi sforzi, grazie ai quali secondo lui sono stato eletto, sono stati bene indirizzati.
Io non riesco a considerare incolmabile e senza speranza il divario tra le enormi possibilità di questo Paese, e i vincoli che ne impediscono l’espressione: lo statalismo, i corporativismi, la paura del rischio e della liberto. Credo che questi vincoli stiano soprattutto a sinistra, che sia più giusto e meglio se sarà la sinistra a rimuoverli, se sarà la sinistra a realizzare quelle riforme che sorto coerenti col suo patrimonio storico, e che solo una non irreversibile deriva attribuisce alla destra. Credo alla volontà modernizzatrice di Massimo D’Alema a di Giuliano Amato, per citare solo due nomi. Nei sei anni da che sono in politica, nelle tre o quattro campagne elettorali che ho fatto, nelle centinaia di editoriali che ho scritto, nelle diecine di interviste che ho dato, nei non so quanti dibattiti a cui ho partecipato, nei disegni di legge che ho presentato, ho sempre e solo lavorato per questa visione. L’ho fatto con imprudente passione, con impolitico entusiasmo; ma a Pansa appare invece «cupezza» di un «algido subalpino».
«Se vuol tornare a Palazzo Madama, contro chi combatterà?», si domanda Giampaolo Pansa. Io ho sempre cercato di lavorare «per» qualcosa. Da «piemontese fesso» - come gentilmente mi chiama lui casalese a me torinese – credo che perda la propria identità chi la pone tutta nell’essere «contro» qualcuno; che chi è maniacalmente attratto da un avversario finisca per esserne inghiottito; che a furia di essere la negazione si finisca per diventare il negativo. Non è che lo scopra Franco Debenedetti, caro Pansa, che l’Italia dei Guelfi e Ghibellini, Bianchi e Neri, Cerchi e Donati, per secoli in politica ha finito per contare meno di nulla oltre a esiliare anche i migliori poeti.
Può darsi dunque che non ritorni per la terza volta a Palazzo Madama. Mi dispiacerebbe, ma non sarebbe grave. E non so se la sinistra «combattentistica» rivincerà le elezioni, e forse neppure questo è un dramma. Ma ciò che è veramente importante, ciò a cui non possiamo rinunciare è che sia la sinistra, che sia questa maggioranza e questo governo a dare al Paese la modernizzazione di cui ha bisogno, e a cui ha diritto.
Se non ci riuscirà sarà anche grazie alle cupe vestali dell’antinciucio, agli allegri compagnoni del partito delle manette tintinnanti, ai garruli ideologi del partito Rai, agli eleganti supporter delle bizze della sinistra interna ed esterna al partito di D’Alema.
Questo si che non è problema che riguardi solo Pansa, il suo editore, e il suo nuovo direttore. È una responsabilità politica di cui tutti dovranno rispondere: per questo ne parlo, da politico, non da improprio «insegnante di giornalismo». Su una cosa però sono d’accordo con Pansa: rifare il verso a Dalemoni con Dalemelli è stata una «battutina sciapa». Forse però è servita a mostrare che neppure l’originale Dalemoni era un granché.
Lei ci assicura che quelli di Via Po possono essere molto più spiritosi. Ci provi, ci provi, ne sarà felice il suo editore e il suo nuovo direttore, i destinatari veri della sua «arrabbiatura», gliela perdoneranno meglio, se sarà condita da miglior spirito.
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agosto 5, 1999